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Legislazione e contrattazione alla sfida della Gig economy

E’ il paradosso della Gig economy: il progresso tecnologico delle piattaforme digitali spesso alimenta i c.d. “lavoretti”.

Sappiamo che non esiste un modello omogeneo di piattaforma digitale: l’obiettivo può essere la collaborazione tra pari (economia della condivisione), oppure la mera intermediazione tra professionisti e clienti, oppure la produzione o vendita, o infine, l’affidamento di compiti ad una indeterminata quantità di persone tramite un contest (crowdworking). E’ soprattutto in quest’ultima tipologia che si annida il paradosso di cui sopra ed è per questi casi che si pone la questione di capire di che tipologia lavorativa si tratti per evitare abusi. Il tema è giunto agli onori della cronaca con la recente sentenza del tribunale di Torino relativa ai ciclofattorini di Foodora, che per ora resteranno inquadrati come collaboratori coordinati e continuativi.

Nell’ultima legislatura sono stati affrontati sia il tema del contrasto al falso lavoro autonomo sia quello delle tutele per il lavoro autonomo “genuino”.

Sul primo punto era già intervenuta la legge 92/2012 (riforma Fornero del lavoro), che contrastava le false Partita Iva riconducendole a Co.co.co.  (non a lavoro subordinato) in presenza di almeno 2 delle seguenti condizioni: durata superiore a otto mesi annui per due anni consecutivi;   monocommittenza (più dell’80% dei corrispettivi percepiti in due anni consecutivi derivanti da un solo committente); postazione fissa di lavoro presso il committente. Erano escluse le prestazioni connotate da competenze elevate, i redditi superiori a 18.000 euro; le attivita` professionali che richiedono iscrizione ad ordini o albi.  Inoltre con la legge Fornero restava in piedi il lavoro a progetto, quindi la «parasubordinazione» come tertium genus tra lavoro subordinato e lavoro autonomo non imprenditoriale.

Il Jobs Act, oltre ad avere abrogato il lavoro a progetto, con l’art.2, comma 1, del dlgs 81/2015 ha sostituito la norma di contrasto alle false partite Iva basata su criteri specifici con una norma di riconduzione generale alla normativa del lavoro subordinato di tutte le collaborazioni (co. co. co. e partite Iva) di fatto eterorganizzate: si applica la disciplina del lavoro subordinato alle prestazioni di lavoro personali, continuative, le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro, fatti salvi alcuni casi particolari (es. le professioni intellettuali che richiedono l’iscrizione ad albi) e fatte salve le collaborazioni per le quali accordi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative prevedano discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore. Dunque se in determinati settori vi sono esigenze particolari, un accordo nazionale (ma l’accordo nazionale potrebbe rimandare ad accordi aziendali) può “tenere in piedi” collaborazioni, benchè in parte eterorganizzate, a patto che stabilisca adeguate tutele. Per inciso, le parti possono anche richiedere agli organi di certificazione di cui all’art. 76, d.lgs. n. 276/2003 la certificazione dell’assenza dei requisiti di riconduzione al lavoro subordinato, con facoltà del lavoratore di farsi assistere da un rappresentante sindacale, da un avvocato o da un consulente del lavoro.  Tali norme hanno effettivamente prodotto un netto calo delle collaborazioni. 

Sul secondo punto, lo scorso anno è stata introdotta una apposita disciplina protettiva «leggera» (legge 81/2017) che ha migliorato le condizioni del lavoro autonomo non imprenditoriale soprattutto in relazione all’ individuazione di clausole abusive nel contratto, alla deducibilità delle spese per esecuzione di incarico, per formazione, per assicurazione contro il rischio di insolvenza, alle prestazioni sociali erogate dalla Gestione Separata Inps. Tuttavia, soprattutto su quest’ultimo punto si sarebbe dovuto fare di più, infatti per co.co.co. e professionisti per i quali non è prevista una specifica cassa previdenziale vige l’obbligo di iscrizione alla Gestione separata Inps, con le relative prestazioni, ma le prestazioni assistenziali non sono ancora adeguate alle esigenze di questi lavoratori (ad esempio la malattia lunga, uno dei più grandi problemi dei lavoratori autonomi, non è tutelata, e la dis.coll. non è prevista per i professionisti) , e dal punto di vista previdenziale la tutela è molto debole per entrambe le categorie, come è noto. 

 

Se questo è l’attuale quadro legislativo, esso rischia di essere superato dai fatti: ad appena tre anni di distanza dalla norma appena vista sulla qualificazione del rapporto di lavoro il tema del rischio di abuso delle collaborazioni e partite Iva è tornato alla ribalta con il moltiplicarsi delle piattaforme digitali che spesso utilizzano rapporti di lavoro che non sono chiaramente di natura subordinata o di natura autonoma, con il rischio di alimentare il contenzioso. In questo quadro la norma citata, pur avendo l’intento dichiarato di contrastare il falso lavoro autonomo, basa la definizione di etero-organizzazione (e quindi di collaborazioni “meritevoli” di rientrare nella disciplina del lavoro subordinato) sul potere del committente di imporre tempi e luoghi di lavoro, e ciò oggi, alla luce delle nuove tecnologie, rischia di essere fuorviante perché esse consentono di svolgere una grande quantità di lavori senza coordinamento spazio-temporale.  

Pur riconoscendo che i lavoratori delle  piattaforme non sono sempre e comunque riconducibili all’ambito del lavoro subordinato, è anche difficile affermare che siano autonomi «a prescindere»: senza entrare nello specifico della sentenza  Foodora, ma rimanendo sulle generali,  la smaterializzazione della figura del datore di lavoro in un algoritmo non è di per sé sufficiente ad escludere la subordinazione, né il fatto che alcune di queste piattaforme permettano al prestatore di rifiutare l’incarico è sufficiente a configurare il lavoro come autonomo. Questo non significa, ovviamente, che siamo sempre di fronte ad abusi, talvolta si tratta effettivamente di situazioni “ a soglia” .

In definitiva, si tratta di questioni di non facile soluzione, e neppure nuove, ma che oggi si presentano con una nuova veste, e che daranno da lavorare ai tribunali e forse anche al Parlamento e al prossimo Governo, se si dovesse valutare come opportuna una modifica legislativa della norma del Jobs Act per rendere più efficaci i criteri di riconduzione al lavoro subordinato.  Al di là della questione della qualificazione, opportuno è sicuramente proseguire nel miglioramento delle tutele normative e assistenziali del lavoro autonomo, sperando che esso sia sempre una libera scelta.

Tuttavia, nell’attesa e indipendentemente dall’evoluzione legislativa, è del tutto evidente che a questi lavoratori devono essere assicurate oggi una serie di tutele che non possono essere semplicemente quelle spettanti alle co.co.co., o peggio alle prestazioni professionali che sono addirittura prive di assicurazione antiinfortunistica.  Basti pensare alla retribuzione, all’orario massimo giornaliero e settimanale, alla trasparenza circa le caratteristiche dell’algoritmo, alla privacy, alle tutele mutualistico assistenziali (cha qualcuno vorrebbe delegare alle “umbrella companies”), all’assicurazione infortuni, etc.  E lo strumento più adatto è a portata di mano: è la contrattazione collettiva. Il già citato art. 2 del d.lgs. 81/2015, pur se superato dai fatti nella prima parte, nella seconda parte apre un importante spazio alla contrattazione collettiva per regolamentare, anche sottraendole alla riconduzione al lavoro subordinato, proprio le situazioni in cui si tratti di collaborazioni eterorganizzate giustificate da particolari situazioni settoriali, quindi “a soglia” tra lavoro subordinato ed autonomo. La via deve essere sia quella della possibile creazione, nell’ambito dei contratti nazionali di lavoro, di sezioni ad hoc che regolino i principali aspetti retributivi e normativi, sia quella di concludere accordi-pilota con una o più piattaforme digitali. Peraltro in alcuni contratti nazionali e accordi il tema è già presente. 

 

Non solo è urgente costruire, con la contrattazione, queste tutele, ma è anche “utile” per le aziende-piattaforme, che potrebbero avere tutta la convenienza a perseguire tale soluzione, anche perché, come già detto, un accordo sindacale eviterebbe loro ulteriori contenziosi, che peraltro potrebbero chiudersi con decisioni anche diverse da quella della citata sentenza del tribunale di Torino.

 

(*)CISL NAZIONALE

 

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