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Solo più Stato salverà la democrazia

Il più grande economista del Novecento, John Maynard Keynes, era liberale. Proprio lui, il cui nome è associato per antonomasia all’intervento pubblico in economia, o allo statalismo per i detrattori. Keynes era un liberale, ma non un liberista. Le politiche keynesiane, proposte dal professore di Cambridge a seguito della crisi del 1929 e realizzate un po’ in tutti i paesi occidentali dopo la seconda guerra mondiale, sono state un ingrediente fondamentale per la golden age dell’economia (quella che da noi è chiamata «miracolo»), contribuendo alla prosperità di massa, consentendo un livello di benessere per fasce crescenti di popolazione impensabile fino ad allora nella storia umana. Salari elevati, pensioni, assicurazioni contro gli infortuni e le malattie, contro la disoccupazione, istruzione e sanità gratuite, o quasi, diritto alla casa: il welfare state. 

E poi ancora, investimenti pubblici per sostenere non solo i consumi e la domanda, ma anche l’offerta. In un quadro di compatibilità internazionali che, grazie agli accordi di Bretton Woods (1944-1971) cui lo stesso Keynes contribuì, limitava i movimenti speculativi di capitale mentre, al contempo, garantiva la stabilità dei tassi di cambio e favoriva la progressiva integrazione delle economie avanzate, a cominciare da quelle europee. Grazie al keynesismo, nella seconda metà del Novecento i paesi dell’Europa occidentale, a impianto liberal-democratico o socialdemocratico, finirono per rivelarsi ben più attraenti di quelli del blocco sovietico, pressoché da ogni punto di vista: non soltanto la libertà personale e politica, ma anche la capacità di crescita economica, fino alle condizioni di vita della stessa classe operaia; i diritti umani e per molti versi anche quelli sociali. Il comunismo smise di essere un’alternativa appetibile, almeno per le popolazioni del mondo avanzato.

In questo modo le politiche keynesiane hanno salvato il capitalismo, lo hanno salvato dai suoi eccessi, e hanno salvato anche il liberalismo (che non è il liberismo), vale a dire il sistema politico incardinato nella democrazia parlamentare e nella divisione dei poteri. Quella cornice istituzionale ha reso possibile, per la prima volta in maniera pacifica, la partecipazione delle classi popolari alla gestione della cosa pubblica: assicurata dal suffragio universale (che prima non c’era), mediata dalla rappresentanza parlamentare e veicolata dai partiti. I partiti progressisti e riformisti, tutti a vario titolo di ispirazione keynesiana da quelli liberali di sinistra (i Democratici americani, altre più piccole formazioni europee), ai socialisti e socialdemocratici, a correnti significative del mondo cristiano-popolare (nella Dc tedesca, in quella italiana), fino all’ala riformista del Pci di Togliatti e Berlinguer, ebbene tutti vissero in quei decenni, e non a caso, anche la loro di età dell’oro: per influenza e prestigio nella società, oltre che nelle istituzioni, per la capacità di trasformare le condizioni di vita dei cittadini e di offrire loro una prospettiva di riscatto.

Oggi le forze politiche che a vario titolo hanno rappresentato il campo progressista versano, non solo in Italia, in una crisi che può rappresentare la fine di un’epoca. E sembra passarsela male anche il liberalismo (che di nuovo: non è il liberismo). Che cosa è successo nel frattempo? Sul banco degli imputati è posta la globalizzazione, che ha indebolito i ceti medi e medio-bassi del mondo ricco: quanti rappresentavano la base e l’ossatura di quei partiti. Se questo risponde a verità, occorre però chiedersi in che misura era inevitabile. A ben vedere anche durante la globalizzazione, nonostante cedessero terreno alla Cina e alle tigri asiatiche, alcune delle economie avanzate hanno continuato a crescere: gli Stati Uniti fra tutti, saldamente alla guida dell’ultima innovazione tecnologica; ma anche la Germania, o altre aree del Nord e Sud Europa che sono andate decisamente meglio dell’Italia. Già. Eppure negli Stati Uniti il tenore di vita della gran parte della popolazione non è affatto migliorato negli ultimi trent’anni. Quello dell’italiano medio è addirittura peggiorato. La disuguaglianza è aumentata, i ricchi sono diventati ancora più ricchi: non stupisce che forze populiste si affermano un po’ dappertutto, in Europa come in Nord America, in genere proprio dove la disuguaglianza è più alta.

Difatti dagli anni Ottanta in poi sono state progressivamente abbandonate le politiche keynesiane. E sono state abbandonate non solo dalla destra liberista (la Thatcher, Reagan), ma persino dalle forze progressiste: stregate anche loro, soprattutto fra gli anni Novanta e Duemila, dall’idea che l’importante fosse crescere; che tanto poi la crescita avrebbe sollevato tutte le barche. Così non è stato, le analisi di cui oggi disponiamo consentono di dirlo con una certa sicurezza. Per i partiti progressisti è quindi necessario un cambio di paradigma, rispetto agli anni Novanta e Duemila. Occorre tornare a politiche di redistribuzione della ricchezza (che per giunta, a differenza di quelle proposte dai populisti, tengano anche conto delle compatibilità globali). Non è un caso che lì dove quei partiti si sono mossi con più convinzione su questa strada, nel Regno Unito come in Spagna, hanno trovato consensi e forza. 

Non si tratta solo di recuperare uno sguardo critico sulle disuguaglianze: aver ben chiaro che oltre certi livelli «fisiologici», esse non sono soltanto eticamente ingiuste, ma nocive per la crescita. Riconoscere questo è soltanto il primo passo. Indispensabile, certo, ma preliminare (se non ovvio). Bisogna capire come combattere le disuguaglianze, come farlo in maniera efficace ben al di là degli slogan populisti, e per questo sono necessari altri due passi. Il primo è tornare a valorizzare come alternativa al mercato proprio il ruolo dello Stato. Che deve intervenire lì dove né il mercato, né il terzo settore hanno l’interesse o la capacità di operare. La letteratura economica, specie applicata, ha ampiamente mostrato come la mano pubblica non sia necessariamente sinonimo di sprechi: dipende dalla qualità della classe politica e dalle regole che la guidano. Ha anche indicato che oggi, proprio come ai tempi di Keynes, vi sono alcune aree in cui il pubblico è preferibile al privato. 

Una è l’innovazione, nei settori più all’avanguardia, cioè quell’ingrediente che garantisce la crescita e quindi il benessere nei paesi avanzati (e che in Italia è carente): come spiega fra gli altri Mariana Mazzucato (“Lo Stato innovatore”, Laterza, 2014) è lo Stato il motore dei settori più promettenti, dalla green economy alle nanotecnologie, dalla farmaceutica alle telecomunicazioni. E non tanto perché ha risorse che spesso mancano ai privati. È proprio perché il mercato a volte non fa l’interesse generale, come ben sapeva Keynes. Si pensi alla ricerca sulla cura per l’Aids: benché non lontani dalla meta, si procede a rilento, per il semplice fatto che le grandi case farmaceutiche, che pure dispongono di ingenti mezzi, non trovano convenienza a investirvi (nell’attuale situazione possono vendere alle milioni di persone con Hiv farmaci antiretrovirali, per tutta la vita); né, per la mole di risorse necessarie, vi è speranza che a intervenire sia qualche startup dal basso, agitando le acque della concorrenza. Al contrario, l’intervento pubblico avrebbe sia i mezzi sia le motivazioni per farsene carico.

L’altro passo è incardinare questa impostazione in una prospettiva globale, vero spartiacque oggi tra le forze progressiste e quelle conservatrici: una prospettiva che sappia porre regole alla speculazione finanziaria (fonte principale della crescita di disuguaglianze all’interno dei paesi), come si faceva appunto ai tempi di Bretton Woods; e che, per l’Italia e per gli altri paesi europei vuol dire anzitutto riformare l’Unione, rendendola non meno ma più coesa, attorno a una governance democratica, federale, ben diversa da quella intergovernativa e sostanzialmente verticistica oggi prevalente. Fra l’altro anche nella ricerca e innovazione assai più efficace dei singoli Stati nazionali sarebbe l’Europa, in grado di competere con giganti come Cina e Stati Uniti.

Ma su questo le forze di sinistra hanno balbettato, negli ultimi decenni: incapaci di formulare proposte ambiziose, e ancor più di darle seguito, perché imbrigliate da strutture di rappresentanza figlie delle vecchie sovranità nazionali. Come lacerate da due cavalli che corrono in direzione opposta – l’aspirazione ideale, il radicamento degli interessi – quelle forze sono finite paralizzate di fronte all’offensiva sovranista: hanno perso anche per questo. Ma la prospettiva globale è indispensabile proprio per combattere in modo efficace la disuguaglianza (si pensi ai paradisi fiscali) e per recuperare un intervento pubblico che sappia tornare a risolvere i problemi delle persone. Segna la differenza di sostanza rispetto al discorso populista.

 

 *Economista – dall’ Espresso 17 luglio 2018

 

 

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