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Ma la borsa non è di sinistra

Com’è accaduto che lo spread Btp-Bund sia diventato la Linea Maginot dietro la quale la sinistra italiana è asserragliata, il baluardo a cui si aggrappa in questa tempesta istituzio­nale? È normale che lo slogan dei progressi­sti sia “attenti al giudizio dei mercati”? Rifiutare il pia­no B dell’uscita dall’euro significa sdraiarsi sull’auste­rity germanica? Proprio quella che abbiamo criticato per anni?     

Capisco che abbia suscitato tante passioni L’Amacadi Michele Serra, in cui ha rifiutato l’alternativa tra “go­verno dei mercati e governo del popolo”.Molti di noi si sentono stritolati in questa opzione. Ci sentiamo tra­diti da una sinistra che fa di tutto per dar ragione a chi la descrive come establishment. Chi commenta l’indi­ce Mib come fosse un giudizio divino sembra dimenti­care che in altre circostanze la Borsa premia le azien­de che tagliano i costi licenziando o ingrassano i profit­ti eludendo le imposte nei paradisi fiscali. La Borsa ha i suoi criteri. Non dovrebbero essere i nostri.

Sento il peso di una disfatta anche personale. È da dieci anni che sulle colonne di questo giornale critico – da sinistra – i governi eterodiretti dai mercati finan­ziari e i danni dell’orto-liberismo tedesco. Non è “fari­na del mio sacco”, o non soltanto. 

Contro l’euro-ortodossia ho dato voce su Repubblica alle accuse ben più autorevoli di un presidente degli Stati Uniti, Barack Obama; nonché di premi Nobel dell’Economia come Paul Krugman e Joseph Stiglitz, Angus Deaton e Ken­neth Arrow. Ricordo i vertici G7 e G20 dove ho seguito Obama, raccontando la sua pressione su Angela Merkel perché correggesse le rigidità dell’austerity. A co­minciare dal summit di Pittsburgh sotto presidenza americana nell’autunno del 2009, quando le econo­mie occidentali erano nel baratro della crisi più grave dalla Grande Depressione. Da quel momento in poi Obama tentò di spiegare che la Germania stava con­dannando l’intera Eurozona ai “tempi supplementa­ri” della crisi.

Cercarono di usare la sponda obamiana i vari Hollande, Letta, Renzi, Varoufakis. Timidamente. I leader dell’Europa latina soffrivano di un deficit di credibili­tà. Così non era per Obama, al timone di un’economia che uscì dalla recessione a gran velocità. Otto anni di critica obamiana – da sinistra – alle re­gole di Maastricht non possono essere cancellati e ri­baltati solo perché a contestare il “pensiero unico” og­gi sono Trump, Salvini, Di Maio.

C’è un prima e un dopo la crisi del 2008 anche per il giudizio sull’euro. Alla prova di quella recessione, i Paesi che ne uscirono più velocemente (Usa) o la evita­rono del tutto (Cina) furono quelli che fecero tesoro della lezione di Keynes-Roosevelt negli anni Trenta e ignorarono parametri di Maastricht, austerity, ecc., azionando robuste leve di investimenti pubblici. È  davvero nella gestione dell’Eurozona fra il 2008 e il 2011 che si scava un divario tra l’opinione pubblica ita­liana, francese, spagnola, greca, e l’ordo-liberismo te­desco. 

Non buttiamo via il lavoro dei neokeynesiani euro­pei – come Jean-Paul Fitoussi– che cercarono di apri­re un varco nella “religione” tedesca dei parametri: di­stinguendo tra buoni e cattivi investimenti pubblici, tra deficit che generano produttività futura (i fondi per la ricerca e la formazione) e la spesa improduttiva, parassitaria, assistenziale.

Contro il Di Maio-Salvini-Savona pensiero, va preci­sato che chi s’indebita all’estero cede sovranità. In questo ci troviamo al momento in pessima compa­gnia: Argentina e Turchia sono gli altri “anelli deboli” presi di mira dai mercati.

In quanto all’uscita dall’euro, ricordo quel che mi di­chiarò – in un’intervista per il Venerdì di Repubblica – quel Joseph Stiglitz che molti sostenitori del M5S sti­mano e rispettano. L’euro – mi disse Stiglitz – è nato su premesse profondamente sbagliate, e ha fatto dan­ni gravi, in particolare all’Europa del Sud. Ma dato che l’Italia c’è dentro, uscirne comporterebbe dei costi an­cora peggiori. Non è un’analisi esaltante: costringe a scegliere il minore tra due mali. È realistica. Sarebbe utile se questa diventasse la linea di un futuro gover­no sovranista e populista, se nascerà. Che dica chiaro all’Europa: vogliamo portare a Bruxelles posizioni molto critiche, ma non usciremo dall’euro.Un messag­gio di questo tenore calmerebbe la tempesta e salve­rebbe un po’ di risparmi delle famiglie italiane.

Un’Italia più aggressiva con Merkel – possibilmen­te rappresentata da persone competenti – è auspicabi­le. Contro il moralismo-razzismo di certi commentatori tedeschi, ricordiamo che a loro le regole si applica­no en souplesse, sospendendole quando serve. Fu vero nei casi di sforamento del deficit/debito; o per la Deu­tsche Bank e altri aiuti alle aziende di credito tede­sche. Infine, resta sempre inapplicata una regola dei patti europei che considera gli eccessivi avanzi com­merciali altrettanto dannosi degli eccessivi deficit.

Ma vorrei che la sinistra smettesse di usare le oscilla­zioni dei mercati finanziari come una clava da sferra­re con opportunismo contro Lega e M5S. I mercati so­no una realtà concreta dove si muovono interessi (non quelli delle classi lavoratrici) e ideologie (neoliberi­smo), su cui troppi governanti di sinistra si sono ap­piattiti, pagando un prezzo altissimo.

Se la salvezza è un tecnocrate del Fondo monetario internazionale, la nostra storia la stiamo buttando via. Non stupisce che la classe operaia vecchia e nuova si senta più rappre­sentata da altri.

*La Repubblica 31-5-18

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