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Un mestiere tutto da definire per non fare pasticci

Pare facile. Sembra ovvio. Ma così non è. Specie se si parla di servizi per l’impiego. Solo un esempio. Nel 2013 – sembra un secolo fa – Nuovi Lavori lanciò una proposta di riforma con un convegno riuscitissimo al Cnel dal titolo ”GIOVANI, OCCUPAZIONE E SERVIZI PER L’IMPIEGO”. Era un periodo in cui si discuteva di questo tema. Poi fu sfiorato dalla discussione sulla riforma costituzionale. Rientrò nel dimenticatoio dopo la vittoria del no al referendum. E’ riemerso ora perché il Ministro del lavoro ha capito che, senza un’attrezzatura adeguata, il “suo” reddito di cittadinanza non potrà decollare alla velocità che ha promesso che avvenga. Cioè, pronto cassa. 

Quella proposta di riforma di Nuovi Lavori, salvo dettagli e contorni, nella parte relativa ai centro dell’impiego, resta intonsa e attuale. convegno, Certo, da quell’evento ad oggi, c’è di mezzo una lunga crisi economica, il consolidarsi di un mercato del lavoro che ha acuito le distanze tra tutelati e non tutelati, che ha sperimentato com’è difficile connettere scuola e lavoro (l’alternanza ha buone applicazioni ma anche tante caricature), che ha assistito all’agitazione legislativa per contenere la cattiva flessibilità (senza riuscirci in modo convincente e rassicurante per gli interessati).

Il dato di fondo è che il Paese rimane duale, dualissimo sul piano occupazionale. Dove la disoccupazione, anche in periodo di crisi, è rimasta frizionale, non superando il 5% (cioè al Nord), il funzionamento dal mercato del lavoro praticamente non sono stati sollevati gravi problemi. Ora che c’è una ripresa produttiva anche significativa, semmai la questione è la mancanza di corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro e molti centri per l’impiego sono assediati più dalle imprese che dai lavoratori. Dove, invece, c’era disoccupazione endemica già pre-crisi e che si è drammatizzata dal 2008 in poi, lì i servizi per l’impiego mostrano la corda. E creano l’interrogativo: che mestiere devono fare? 

Dal dibattito in corso sembra prevalere quello del “collocatore”, una sorta di revival di una figura mitica negli anni 50, quando l’Italia era rurale e poco acculturata. Quando non solo vigeva il collocamento obbligatorio ed in quanto tale numerico, soprattutto in agricoltura dove c’era la maggior parte dei disoccupati, ma la problematica della diversificazione delle professionalità riguardava una fascia modesta di aziende e lavoratori. Con l’industrializzazione prima e l’economia della conoscenza poi, la seconda caratteristica del lavoro ha preso il sopravvento e il collocatore perse la sua “egemonia”. Da allora in avanti, attraverso gli uffici del lavoro sono passati pochissimi collocamenti diretti (il 3% delle assunzioni) e tantissime carte classificatorie, per di più con criteri non omogenei e pesantemente burocratici. 

La legislazione di fine secolo scorso, liberalizzò ciò che era già di fatto liberalizzato e nacquero agenzie private di intermediazione, regolate da norme abbastanza rigorose. In parallelo con le diversità derivanti dal dualismo del mercato del lavoro, sono numerose e finanche specializzate nel Centro Nord e più rarefatte e generaliste nel Mezzogiorno. In entrambi i casi, però, le agenzie private hanno dimostrato più un’attitudine a curare le esigenze delle aziende  che fare tutoraggio dei disoccupati. Impilano i curricula che i richiedenti lavoro consegnano e li fanno riemergere quando arrivano le richieste delle aziende. La scarsa attitudine a farsi carico delle esigenze specifiche del singolo, ha reso meno incisiva la filiera della Garanzia Giovani e desertico il territorio dell’accompagnamento alla migliore riqualificazione professionale del soggetto che si rivolge ad esse.

In questo squilibrio dell’attività di intermediazione pubblica e privata, i soggetti imprenditoriali, le strutture della formazione fino all’Università, i giovani in cerca del primo lavoro, i più anziani che hanno perso o vogliono cambiare il lavoro che fanno e quindi i loro rappresentanti sindacali, tutti assieme non riescono a mettere a fattor comune le diverse esigenze. Con il fantastico risultato che ciascuno tende ad arrangiarsi. Si arrangia l’imprenditore che cerca qualifiche che non trova. Si arrangiano le scuole e le università che cercano di diversificare corsi di laurea e master in relazione alle tendenze del mercato che intravedono quando sono attive, ma possono anche bellamente ignorarle e continuare a sfornare diplomati e laureati in assoluta dissonanza con i fabbisogni del mondo del lavoro. Si arrangiano i singoli e i sindacati cercando di rendere meno penosa sia la ricerca di alternative alla disoccupazione che la quadratura dei conti familiari.

Un sistema di intermediazione utile a tutti, quindi, va perseguito ridefinendo ruolo del pubblico e quello dei privati. Ma quale? Il ministro del lavoro sembra avere in testa un centro dell’impiego che fa tutto: riceve i curricula, li confronta con le richieste aziendali, fa incontrare i soggetti interessati e possibilmente fa assumere. Se questo circolo virtuoso non si realizza, fornisce il reddito di cittadinanza, orienta la formazione aggiuntiva da perseguire, lo indirizza ai lavori socialmente utili (8 ore la settimana, francamente un’inezia che può soltanto creare fastidi a chi li deve ricevere), propone eventuali sbocchi e se vengono rifiutate 3 offerte (si suppone che siano  fatte dal datore di lavoro coinvolto e soddisfatto del candidato, se no si configurerebbe come un collocamento obbligatorio) cancella l’erogazione del sussidio. Non essendoci un articolato di legge a disposizione molti dettagli mancano e quindi ogni giudizio complessivo va sospeso.

Non si può, però, non sottolineare che un ruolo di questo genere – oltre a intaccare competenze assegnate alle agenzie private, se l’incontro tra domanda ed offerta fosse tutta concentrata nei centri dell’impiego – presuppone un personale altamente qualificato ad assistere i singoli e le aziende. Una rivoluzione che dovrebbe fare i conti con l’autonomia delle Regioni in questo campo, con i tempi dell’eventuale ricambio delle competenze dei dipendenti pubblici, con l’esigenza del Governo di dare avvio rapido al reddito di cittadinanza. Il rischio di fare un pasticcio è grande. Meno evidente nelle zone a disoccupazione bassa, sconvolgente nei territori a disoccupazione alta. Qui, altro che collocatore; il mestiere principale diverrebbe praticamente l’erogazione del sussidio, con buona pace della dignità delle persone. 

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