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Bentornata l’unità del sindacato

Nel pieno di una bufera politica, con l’avvento di una coalizione parlamentare e governativa eterodossa come quella tra Lega e 5 Stelle, nel corso di una stagione lunga e contraddittoria in cui la società civile si è confermata ampiamente disgregata, nello scenario di un’economia globalizzata e lanciata verso un balzo tecnologico formidabile che sta sconvolgendo la qualità e la quantità del mercato del lavoro, il sindacato italiano sta ridefinendo la propria fisionomia. Inizia dalla testa, in modo inedito forse, ma tant’è. C’è un ricambio delineato nella CISL, con la nomina di Sbarra a Segretario Generale aggiunto, anche se la leadership di Furlan durerà finchè lei lo vorrà. Nella UIL è in atto un ricambio programmato tra Barbagallo e Bombardieri. Nella CGIL, dopo un lungo confronto tra Landini e Colla, il congresso recentemente concluso ha sancito la pace interna fondata sulla cooperazione tra i due, così che il primo sostituirà Camusso.

Sebbene sia un ricambio fisiologico, si profila strategicamente interessante. Va progressivamente nella riserva la generazione che ha vissuto in prima linea, sulla propria pelle, la lunga fase degli accordi separati con i Governi e le imprese, figlia – a sua volta – dello scontro del 1992 sulla concertazione. Un lungo periodo nel quale le ragioni dell’identità hanno progressivamente prevalso sulla individuazione delle migliori scelte contrattuali e politiche a cui il sindacato veniva chiamato dai cambiamenti imposti dalle crisi economiche e dalle innovazioni produttive ed organizzative nei luoghi di lavoro. Tutto questo è alle spalle, ormai, del dibattito sindacale. C’è chi vorrebbe che questa archiviazione fosse il frutto di autocritiche e riconoscimenti espliciti, soprattutto da parte di chi ha fatto resistenza ai cambiamenti e ha preferito più opporsi che gestirli. Ma il più limpido riconoscimento dell’apertura di una nuova fase è che si è tornati a firmare assieme gli accordi con gli imprenditori e con i Governi.

Insistendo sulla diversificazione dei comportamenti, il sindacato italiano ha sfiorato l’irrilevanza della rappresentatività – in barba alla forte adesione in termini di iscritti e di partecipanti al voto per l’elezione dei delegati – e conseguentemente del peso politico. Tutti i sondaggi concordano su questo rischio. La miopia della politica ha fatto il resto. Il centro destra, nella versione berlusconiana, ha cercato di sfruttare, a proprio vantaggio, la divisione sindacale. Il centrosinistra si è spinto a teorizzare la disintermediazione. Il Governo Renzi ha consumato il suo più grande peccato mortale: snobbare tutto il sindacalismo confederale e lo ha pagato caramente. Ora, il Governo Conte sta praticando la stessa logica, cercando finanche di mettere in imbarazzo il sindacato con proposte chiaramente demagogiche, ma quasi tutte sul terreno proprio del lavoro. La reazione in atto, prima con una diffusa consultazione dei lavoratori – a loro volta, abbastanza sbandati dai contenuti della legge di stabilità – poi con la proclamazione della manifestazione del 9 febbraio prossimo, è un segnale importante di protagonismo.

La qualità dell’unità che caratterizza questa nuova fase non è ancora molto chiara. Sul piano strettamente contrattuale, indubbiamente la cultura della partecipazione ha acquistato egemonia. La CISL e la UIL hanno più dimestichezza con questa strategia, mentre la CGIL ha faticato molto per farla propria. Assieme potranno raffinarla. Sempre più contratti aziendali e nazionali hanno come punto di riferimento la combinazione tra esigenze di produttività e di competitività delle imprese con quelle di tutela e crescita salariale e di benessere dei lavoratori (welfare aziendale). Questa strategia fa perno sul lavoro stabile. Un confine spesso “ad excludendum”. Nel frattempo, ha acquistato senso e valore anche la quota di lavoro instabile sia interno all’azienda che esterno, spesso ad esso collegato. Così le misure che il Governo Conte ha adottato per le partite Iva daranno una ulteriore, formidabile spinta alla frantumazione del mercato del lavoro. La ricomposizione della rappresentanza a scala aziendale e territoriale tra stabili e precari sarebbe un rilevante passo in avanti per il consolidamento dell’unità tra le sigle sindacali.

Ma è sul piano della politica economica che si misurerà la prospettiva unitaria. Non basta dire che le ragioni storiche della divisione sono anacronistiche. Lo erano già dieci anni fa e più indietro anche. Bisogna capire fino a che punto il sindacalismo confederale moderno voglia spingersi nel campo accidentato del governo macroeconomico del Paese. Fino a che punto vuole essere un soggetto politico, che incide, in autonomia, sul destino degli italiani. Fino a che punto vuole consolidare la democrazia rappresentativa rispetto a quella diretta, concorrendo a rivalutare il ruolo dei corpi intermedi. Il momento è drammaticamente favorevole per mettere alla prova la capacità del sindacato confederale di porre i lavoratori occupati al centro di una ricomposizione del mondo del lavoro, in modo serio, credibile, partecipato, mobilitato.

E’ inutile elencare su cosa cimentarsi. I temi sono tutti sul tavolo. Quello dell’Europa. Quello della riduzione delle diseguaglianze nel lavoro e nella distribuzione della ricchezza. Quello di uno sviluppo sostenibile. Quello del lavoro dignitoso per tutti. Quello della coesione sociale, a partire dalla questione emigrazione. Anche su questi temi i lavoratori vanno riconquistati ad una visione comune, condivisibile con chi si sente escluso dai vantaggi del benessere.  Su uno striscione in una manifestazione sindacale ho letto uno slogan che potrebbe sembrare radical, ma invece è soltanto ragionevole. “Se il sindacato non sta con gli ultimi, non è sindacato”. La cultura individualista e consumista ha prodotto una frattura tra ceto medio e più poveri, tra lavoratori ed emarginati. Teoricamente, il sindacato potrebbe ignorare questa lacerazione, ma alla lunga prevarrebbe una visione neo corporativa del suo ruolo. Ma soprattutto, giovani, precari, non tutelati di ogni età gli volterebbero le spalle, sanzionando in questo modo l’isolamento degli occupati stabili.

Questa prospettiva potrebbe reggere se i rappresentati dal sindacato fossero tutti in una situazione lavorativa e salariale soddisfacente.I fatti dicono che ciò non corrisponde alla realtà. Rabbie e paure scorrono lungo questi strati sociali. La scala reddituale che si sta consolidando nel Paese è troppo squilibrata in assoluto e in termini relativi. Le ingiustizie sociali toccano anche gli occupati e i propri familiari. Questi potenziali falò ribellistici, certamente disgreganti, possono essere superati soltanto con una strategia di ricomposizione del mondo del lavoro che si terrà insieme attraverso contenuti condivisi, riguardanti contestualmente l’occupazione, il reddito e il welfare. E’ l’unica chance a disposizione di un sindacato unito, che vuole essere protagonista di un mondo più giusto, più umano. 

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