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Un’ abile arma di distrazione di massa

Quante argomentazioni superficiali e banalità strumentali si stanno accatastando attorno alla questione del salario minimo legale! Cioè della determinazione per legge della remunerazione oraria lorda minima per un lavoratore dipendente, sotto la quale non è consentito andare, pena l’illegalità dell’atto, anche se vi fosse stato il consenso del lavoratore. Non è la prima volta che se ne discute e questo dovrebbe insospettire. Se fosse una esigenza reale, cioè corrispondente ad aspettative concrete, possibile che quando il sindacato era più forte e rappresentativo e al Governo c’erano forze politiche più sensibili alle esigenze del mondo del lavoro, non si sia fatto alcun passo in avanti su questo tema?

I sostenitori del provvedimento ricorrono a varie argomentazioni. Vale la pena di prenderle in considerazione per comprendere se si sta affrontando un problema vero o si vende ottone per oro ovvero se si sta riesumando un tema per perseguire prevalentemente obiettivi politico-elettorali. Essendo alla vigilia delle elezioni europee, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca. La cosa curiosa è che i sostenitori più accaniti del provvedimento pur dileggiando e volendo affossare l’Europa non solo la portano ad esempio ma, come ha fatto il Presidente del Consiglio vorrebbe che il salario minimo divenisse una misura europea (lettera a Repubblica del 19/03/2019).

Innanzitutto, si dice che un salario minimo si deve fare perché ce l’hanno quasi tutti i Paesi a capitalismo evoluto. Una verità indiscutibile, solo a metà. Non si dice infatti che la struttura contrattuale esistente in questi Paesi è piuttosto debole e quindi molte figure professionali restano affidate ai rapporti di forza esistenti nel mercato. Non si fa gran fatica a capire che a soccombere sia il lavoratore povero, poco professionalizzato, scoperto da tutele sindacali.  Da qui la necessità vitale del salario minimo legale. Nel Paese più vicino per robustezza al sistema contrattuale italiano, la Germania, c’è il salario minimo legale dal 2015 ma, a differenza dell’Italia, non è consolidato il ruolo della magistratura che rende sostanzialmente erga omnes i contratti nazionali di categoria, i quali coprono la stragrande maggioranza dei settori produttivi e quindi la quasi totalità dei lavoratori dipendenti italiani.

Si dice, inoltre, che ci sono circa 3 milioni di lavoratori non coperti da contrattazione collettiva nazionale, cresciuti all’ombra di una gigantesca ristrutturazione delle imprese soprattutto in agricoltura e nei servizi privati e pubblici e si citano come esempi eclatanti i riders, i cococo, gli stagisti, i contrattualizzati precari. Bisogna capirsi. I lavoratori si dividono in larghissima maggioranza in due macro categorie: quelli dipendenti e quelli autonomi. Soltanto una piccola fetta non trova collocazione certa né nell’una, né nell’altra macro categoria. Di questa fetta, una parte – per esempio alcuni lavori in agricoltura – sono stati già regolamentati. Semmai il problema è la loro applicazione.

Infine si dice che introducendo il salario minimo legale si contrasterebbero i “contratti pirata”. Questi accordi, negli ultimi anni, hanno ottenuto il timbro del CNEL (che il legislatore ha individuato come unico certificatore di tutti i contratti che vengono stipulati sia da rappresentanti datoriali o sindacali concorrenti con le grandi e tradizionali associazioni di rappresentanza, sia da quest’ultime). Ovviamente i primi sono al ribasso non solo sul salario ma soprattutto sui diritti.  In poco tempo il numero dei contratti è lievitato. Ammontano a ben 978, di cui solo il 33 per cento è firmato dalla Cgil, Cisl e Uil. Confindustria ne firma solo il 14 per cento. Nel settore del commercio esistono 192 contratti vigenti, dei quali solo 23 firmati dai tre grandi sindacati). Ebbene, pensare che il salario minimo legale faccia sparire questi contratti una pia illusione, per due motivi. Il primo è che i “contratti pirata” non scomparirebbero, dato che riguardano anche altri istituti contrattuali regolati in maniera difforme dai contratti nazionali più utilizzati e a favore delle imprese che lo adottano. Il secondo è che il livello a cui si attesterebbe il salario minimo sarà più basso dei minimi contrattuali attualmente esistenti e quindi vicini a quelli dei “contratti pirata”. 

In definitiva, se si dovesse fare una legge sul salario minimo legale, questa riguarderebbe una schiera di lavoratori dipendenti modesta, quelli che si collocano in un’area grigia tra i due tipi di contratti fondamentali. I quali dovrebbero sempre ricorrere al magistrato per far valere i propri diritti verso quei datori di lavoro che non avessero erogato il giusto salario (anche se minimo). In tal caso, un bravo avvocato del lavoro chiederebbe il rispetto a tutto tondo del contratto più prossimo al tipo di lavoro svolto dal suo assistito. Né aiuterebbe i finti lavoratori autonomi che svolgono mansioni da dipendenti e che, se si rivolgono al magistrato, lo faranno invocando l’applicazione integrale del contratto corrispondente alle loro mansioni e al loro settore. Sempre che non trovino vantaggioso proseguire nella finzione, dato che la flat tax ad essi dedicata recentemente è francamente più conveniente che un semplice salario minimo da lavoratore dipendente. 

Ma allora, perché soprattutto da parte del Governo il tiro è così alto? Perché va continuamente buttato il fumo negli occhi della povera gente, dei più esposti alla precarietà. Bisogna far credere che ci si “occupa” di loro. Prima con il decreto dignità che avrebbe eliminato la povertà. Poi con il reddito di cittadinanza che avrebbe sostenuto i consumi e fatto crescere l’economia italiana. Infine con quota 100 per le pensioni che avrebbe aperto le porte al lavoro stabile a centinaia di migliaia di giovani. Bandiere tutte in via di silenzioso ammainamento. E occorrono nuove bandierine. Appunto il salario per legge.

Un Governo serio, che avesse sinceramente a cuore la condizione dei “working poors”, avrebbe posto alle parti sociali altri obiettivi: una legge rigorosa di accertamento della rappresentatività delle associazioni stipulanti i contratti per avere pochi contratti nazionali di riferimento veramente condivisi al punto da renderli erga omnes; la progettazione di un sistema di welfare mirato per il sostegno di coloro che si trovano nell’area del lavoro autonomo (fondi rotativi per ottenere mutui per l’acquisto della prima casa) ed una revisione della normativa fiscale per evitare la corsa dal lavoro dipendente a quello autonomo; far costare di più il lavoro a tempo determinato, specie dal lato previdenziale, evitando limitazioni artificiose come quelle introdotte recentemente; un rafforzamento significativo e non simbolico del sistema dei controlli pubblici sull’applicazione dei contratti; il gratuito patrocinio per i lavoratori che si ribellano al sottosalario, dato che i costi della giustizia sono un disincentivo al ricorso ad essa. 

Certo, questi obiettivi presupporrebbero una consistente negoziazione con le parti sociali, a partire dal riconoscimento del loro ruolo di rappresentanza sociale. Non basta formalizzare il confronto come si è fatto qualche giorno fa e suonare le fanfare. Un tavolo non lo si nega a nessuno, per chi ha buone maniere diplomatiche. Il problema è sempre quello successivo: di che si discute, se si discute concretamente. E se questo diventasse un diversivo, un discutere del dito senza affrontare la luna che si indica, il sindacato dovrà necessariamente decidere di denunciare con gesti concreti e unitari la volontà dei lavoratori di non farsi prendere in giro.

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