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Per un nuovo paradigma degli orari di lavoro

Le proposte

La tesi che proponiamo è che la riduzione dell’orario di lavoro, in modi mirati, progressivi e in piccole dosi ma generalizzate, sia una leva fondamentale per aiutare il nostro paese a uscire dalle difficoltà strutturali in cui si trova. Una riduzione ben congegnata e adattata alle filiere, distretti o alle singole realtà produttive ci aiuterebbe sia ad uscire dalla crisi generata dalla pandemia, sia a prepararci al sistema produttivo del futuro, sia ancora per soddisfare nuovi modi di vita. Il futuro infatti avrà più tecnologie digitali, più robotica, più “green”, più smart working , più intelligenza artificiale  e più economia circolare. 

Infatti la riduzione progressiva dell’orario di lavoro, modulata anche sulle esigenze delle persone, potrebbe avere effetti benefici su alcuni mali storici del nostro paese: la bassa produttività, la scarsa presenza delle donne nel lavoro, il precariato dei giovani, la scarsa natalità e le culle vuote.  Anche dal punto di vista della spesa pubblica la nostra tesi è che allo Stato convenga incentivare forme strutturali di riduzione, flessibilizzazione e modulazione degli orari di lavoro, piuttosto che distribuire sovvenzioni a pioggia e improduttive che a lungo andare sono insostenibili per la spesa pubblica. 

La proposta di riduzione degli orari si basa sullo sviluppo di tre interventi strettamente collegati: la lotta allo straordinario, la riduzione generalizzata per alcune ore medie settimanali, una maggiore diffusione del part time soprattutto nella forma non della metà tempo ma delle 5-6-7 ore medie settimanali. 

  1. La lotta allo straordinario è una priorità per il nostro paese; accompagnata da una sua sostituzione con strumenti alternativi di flessibilità produttiva, più evoluti, meno costosi e che accrescono la produttività delle aziende. L’attuale uso eccessivo dello straordinario è infatti una delle cause principali di caduta di competitività delle imprese. Erroneamente si ritiene che esso sia un risparmio, ciò accade perché si fanno male i conti e perché l’abitudine è più forte dei numeri. Certo la singola ora straordinaria si paga meno perché, per paradosso solo italiano, sulla paga dell’ora di straordinario non gravano molti altri istituti salariali e contributivi (ad es. la liquidazione), in vari Contratti collettivi.  Invece lo straordinario è fonte di costi nascosti e di sprechi enormi: esso scombina i cicli produttivi, perché essendo volontario non ci sono mai tutti gli addetti; la carenza di servizi interni alle imprese può ridurre qualità e produttività (ad es. se sono assenti gli addetti qualità e manutenzione). Inoltre nelle ore straordinarie le persone lavorano male e malvolentieri, molte operazioni sono incomplete o restano a metà, si crea confusione e disorganizzazione. Inoltre ci sono i costi indiretti (ad es. apertura azienda per poche persone, energia poco utilizzata, sprechi di materiale, necessaria presenza di capi e servizi). Le criticità generate dallo straordinario a causa dei pochi addetti aumentano nei nuovi ambienti ad alta automazione e nei sistemi just in time dove è necessaria una presenza minima collettiva di tutte le funzioni. Infine, il peggio è che lo straordinario a basso costo spinge le imprese a non fare investimenti. In generale si tenga presente che lo straordinario è molto diffuso nel nostro paese sia perché i lavoratori hanno bisogno di più salario, sia per la carenza di strumenti di flessibilità oraria moderni, come in Germania e nei paesi nordici, sia per l’eccesso di gerarchia di reparto e di ufficio delle nostre imprese: i capi usano gli straordinari come strumento di potere. Gli effetti negativi sull’occupazione sono elevati: ad es. nel settore metalmeccanico le ore straordinarie annue pro capite effettuate negli ultimi anni, sono più di 60 ore/anno per addetto, il che equivarrebbe a più di 50mila posti di lavoro full time nel solo settore meccanico.

b) In secondo luogo, la nostra proposta è di preparare gradualmente e progressivamente una riduzione generalizzata di orario, anche se limitata a 34-38 ore medie per tutti, ma flessibile e modulabile. Ci deve essere la possibilità di attivare orari a 40 ore nei picchi produttivi e a 30-35 nei flessi. Questa riduzione generalizzata potrebbe essere molto utile non solo nel breve periodo per fronteggiare le oscillazioni delle vendite generate dalla pandemia e dalla caduta dei consumi, ma soprattutto nel lungo periodo per ridurre l’impatto della disoccupazione tecnologica creata dai massicci investimenti in tecnologie digitali che si prospettano in Europa, vedi programma Next Generation. Inoltre questa soluzione creerebbe uno spazio temporale certo (alcune delle ore di riduzione) per sviluppare la formazione continua di massa, di cui abbiamo pressante bisogno in Italia per adeguarci al 21° secolo. Questa soluzione tuttavia implica sia il superamento completo dell’attuale paradigma di orario standard (centrato sulla giornata lavorativa di 8 ore), sia l’abbandono definitivo della Cassa Integrazione a zero ore, tipica della storia italiana, utile in questa fase di chiusura forzata, ma da superare come impostazione generalizzata a favore della conciliazione vita-lavoro, con i sistemi di orario a menù.

b) In terzo luogo, pensiamo che questi stessi benefici potrebbero essere ottenuti anche rafforzando e incentivando la diffusione degli orari a Part Time, cioè quelli con orari medi settimanali di 4, 5, e soprattutto 6 ore purché resi più flessibili, più modulabili e in certi casi (come il turismo) stagionalizzabili. Anche in questo caso la gestione aziendale degli orari Part Time, opportunamente combinati con quelli a Full Time, dovrebbe essere modulabile con accordi tra azienda e lavoratore, secondo regole esplicite negoziate dai sindacati a livello aziendale o di filiera (cosiddetti orari a menù). Anche questa soluzione implica però l’abbandono delle rigidità normative, introdotte in un’altra epoca con finalità protettive, che oggi non sono più attuali e devono essere superate. Esse erano orientate a salvaguardare il diritto del lavoratore a svolgere più lavori e quindi a salvaguardare il salario, ma in realtà non hanno avuto molti effetti positivi, ad es. non hanno contrastato la proliferazione del part time involontario. 

c) Infine, dal punto di vista economico la tesi che avanziamo è che la riduzione di salario per i lavoratori che passano da Full Time a 35-38 ore medie, pagate in proporzione, potrebbe essere annullata con due tipi di interventi che garantirebbero un salario pieno o anche più elevato. In questa prima fase di crisi per il Covid 19, l’integrazione al salario pieno potrebbe essere sostenuto dalle sovvenzioni previste dal programma europeo SURE e dalla Cassa integrazione italiana. Ma sul medio periodo bisognerebbe prevedere altri tipi di compensazione e di crescita del salario per una redistribuzione della ricchezza. Da un lato le aziende potrebbero restituire al lavoratore una parte degli incrementi di produttività ottenuti a seguito ai cambiamenti, sotto forma di premio di flessibilità e di produttività. Ma dall’altro ci dovrebbe essere un intervento di sostegno dello Stato per defiscalizzare il salario di produttività e per spostare una parte degli incentivi oggi utilizzati per altre forme (ad es. CIGS, incentivi alle assunzioni, e detrazioni fiscali non collegate ad aumenti di produttività) su queste soluzioni di orario ridotto o a part time, con l’obiettivo di sostenere lo sviluppo. In generale la nostra tesi è che lo spostamento degli incentivi pubblici su queste due nuove forme di orario (Full Time ridotto e Part Time modulabile) possono essere il fulcro di una nuova politica attiva per incentivare la produttività del lavoro, ridurre la disoccupazione, minimizzare il lavoro precario, e sostenere i salari. In tutti i casi gli orari ridotti e il Part Time modulabile dovrebbero essere combinati con la Formazione continua di massa e obbligatoria, governata congiuntamente dagli attori sociali (imprese e sindacati) 

 

  1. Produttività e nuovi fabbisogni nel tempo di lavoro 

Uno dei mali storici della nostra economia è la stagnazione della produttività negli ultimi decenni. Invece Germania, Francia e Paesi nordici hanno realizzato notevoli incrementi di produttività legati non solo a più ampi investimenti tecnologici, ma anche a nuovi paradigmi di gestione del tempo di lavoro, più flessibili e manovrabili dalle imprese, ma allo stesso tempo più corti e più adatti alle esigenze di conciliazione vita-lavoro e di formazione delle persone. 

 Se anche in Italia osserviamo il futuro con questo approccio, possiamo individuare alcuni fabbisogni emergenti che riguardano ugualmente i tempi di lavoro, i tempi dei servizi e delle città ed anche il tempo libero, soprattutto quello dedicabile alla formazione continua.

In primo luogo, a breve, c’è la necessità di mantenere il distanziamento spaziale prescritto dagli standard sanitari. È noto che esso si può realizzare più facilmente utilizzando anche la leva temporale e non solo quella degli spazi. È evidente che lo scaglionamento di ingresso e uscita, la crescita e la rotazione dei turni e delle squadre, l’allungamento delle aperture di fabbriche e di servizi possono facilitare il distanziamento fisico tra le persone in qualsiasi ambiente (fabbrica, scuola, treni, spiagge). Questa esigenza richiama inoltre un maggiore coordinamento dei tempi delle città e in generale degli orari dell’intero paese. 

In secondo luogo è auspicabile una maggiore flessibilità produttiva coniugata con più conciliazione tra vita e lavoro e più possibilità di scelta personale sugli orari dei lavoratori.  La maggiore flessibilità produttiva sarà fondamentale per consentire alle imprese di affrontare meglio la crisi economica e l’altalena dei mercati nei prossimi mesi, che registreranno probabilmente un andamento a singhiozzo. Allo stesso tempo tuttavia non si potrà scaricare le esigenze di flessibilità dell’impresa solo sui lavoratori. Al contrario sarà necessario aumentare anche se in piccola parte, gli spazi di scelta e di personalizzazione dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici siaper esigenze di cura che per incrementare le opportunità di lavoro. La maggiore flessibilità fa anche molto bene all’ambiente e ai vincoli ecologici, perché può facilitare i risparmi di energia, il miglior utilizzo degli impianti, la depurazione e il riciclo degli scarti e così via. L’ecologia si coniuga bene con più flessibilità e più conciliazione.
In terzo luogo, sul medio periodo c’è il problema della disoccupazione tecnologica. I notevoli investimenti digitali pianificati nei paesi europei, produrranno sia una vasta esigenza di riconversione professionale sia la caduta di occupazione in molti settori, soprattutto quelli centrati sulla tradizionale gestione manuale delle informazioni, come ad es. le banche. La riduzione di orario, nelle forme proposte potrebbe favorire la riconversione professionale e la trasmigrazione dei lavoratori tra i settori. Collegato a questi cambiamenti vi è il fabbisogno di tempo per la formazione e l’apprendimento per le molte persone e soprattutto per i lavoratori ancora dotati di un bagaglio culturale novecentesco. Oggi è sempre più evidente che senza un salto nella conoscenza e nelle competenze il nostro sistema sociale non potrà sopravvivere alle catastrofi sanitarie e ambientale del 21° secolo. Il gap conoscitivo oggi è drammatico.

 

  1. Arretratezza dell’Italia ed esigenza di cambiamento negli orari di lavoro

L’Italia è rimasta molto indietro sulla riduzione di orario e sulla sua flessibilizzazione, non solo rispetto a Germania, Francia e Paesi Nordici, ma anche rispetto ad alcuni paesi asiatici.

In Francia e Germania la riduzione a 35 ore medie settimanali attuata a metà anni ’90 è stata accompagnata da vaste ed efficaci campagne di flessibilizzazione degli orari di lavoro e di investimenti in nuove tecnologie, che hanno dato un contributo determinante alla crescita di produttività. In Italia un fenomeno simile di cambiamento degli orari anche a vantaggio della conciliazione vita e lavoro, si è verificata solo dopo la crisi del 2008, in una limitata parte del sistema produttivo; cioè in quel 30% di imprese che ha tirato la ripresa e l’export dopo il 2014. Il resto del sistema è restato a bassa produttività e in stagnazione.

Per quanto riguarda il part time, nei confronti con l’Europa e i paesi anglosassoni, l’Italia resta sempre indietro quanto a diffusione e al suo uso come un tassello delle politiche sociali a favore della famiglia e delle nascite. È noto che in vari paesi del Nord e del Centro Europa il Part Time è stato uno dei capisaldi delle politiche per la famiglia e per le nascite, oltreché di flessibilità e competitività. 

In effetti, il Part Time in Italia è cresciuto più velocemente solo negli ultimi decenni a seguito di pressanti esigenze aziendali di risposta ai mercati e non come effetto di politiche pubbliche finalizzate all’ingresso nel mercato del lavoro delle donne e di sostegno alle nascite. Questa espansione si è registrata in primo luogo nella Grande Distribuzione Organizzata, nel Turismo e nei Call Center, dove l’assunzione progressiva di personale a Part Time è stata utilizzata come lo strumento fondamentale per la gestione efficiente dei picchi di lavoro alle casse, per la gestione della stagionalità e dell’ampliamento dell’orario di apertura alla sera, al sabato e alla domenica. Infatti la possibilità di far coincidere la curva di presenza dei lavoratori con la curva delle vendite o delle chiamate è molto più facile con tanti Part Time invece che con tutto il personale a Full Time. 

Nei settori dell’industria manifatturiera, e negli altri servizi, il Part Time è rimasto fermo ai tetti contrattuali e alla forma del “metà tempo” (4 ore settimanali fisse al mattino). Si noti che in una situazione tradizionale, con la quasi totalità dei lavoratori a tempo pieno (8 ore), con lo straordinario facile e con pochissime persone a metà tempo (4 ore), il costo del lavoro a part time a 4 ore può apparire in certe indagini maggiore del costo del lavoro ordinario.   Questo a causa delle difficoltà del coordinamento tra le 4 e le 8 ore, degli sfridi di tempo e dei costi di gestione risorse.  Il calcolo dei costi si rovescia di segno se si pensa a un uso delle riduzioni di orario e dei part time per quote rilevanti di lavoratori, a scopo di maggiore flessibilità e di abolizione degli sprechi dello straordinario. Tra l’altro nei turni di 6 ore (per part time o per orario ridotto) c’è un risparmio netto per l’azienda del 12% circa per l’assenza della mezz’ora di mensa pagata presente in molti CCNL dell’industria. Se ben usato il par time soprattutto a 6 ore riduce i costi notevolmente. 

Sappiamo che ci sono difficoltà a dare credito a quanto affermiamo, tuttavia non c’è solo l’esempio della Germania.  In Italia una soluzione di questo genere è stata negoziata dalla direzione Luxottica e dai sindacati Cgil, Cisl, Uil nel contratto aziendale dello scorso giugno 2019.  in cambio della stabilizzazione di 1150 lavoratori precari assunti stabilmente, i neoassunti avranno un orario a part time incentivato di 37 ore medie settimanali risultato di 30 settimane annue a 8 ore retribuite (7,5 ore lavorate) e 22 settimane annue a 6 ore retribuite (6 ore lavorate), con altre ore dedicate alla formazione. Al nuovo orario potranno aderire volontariamente anche i lavoratori già in forza.

In sintesi la cultura tradizionale italiana, basata sul lavoro dipendente come lavoro subordinato a tempo pieno con totale fedeltà all’impresa, con presenza assidua e con tante ore straordinarie, è arrivata intatta fino ai nostri giorni. Una innovazione si è diffusa solo in quei settori (Supermercati, Ristorazione, Turismo e Call Center) nei quali gli enormi picchi di lavoro, rendono quasi obbligatorio il ricorso al Part Time, per restare competitivi. È tuttavia sorprendente che la cultura dell’orario tradizionale imposto dall’impresa sia proseguita, nella stragrande maggioranza dei casi, senza scosse e senza tentativi di aggiornamento.

 

  1. Flessibilità e conciliazione con gli orari a menù: esperienze   in Italia

In Italia sono poche le esperienze innovative di “orari a menù” che combinano parzialmente flessibilità e conciliazione e che sono formalizzate con accordi sindacali. Vi sono esempi nel settore dei servizi, come alcuni Supermercati COOP (isole del tempo), poi nel caso IKEA con il progetto Tempo (Accordo del 2018) e in qualche Call Center (ad es. casi Call e Call, accordi del 2016). Nel settore industriale il sistema a menù è stato utilizzato in alcune aziende innovative ad esempio ZF di Padova (accordi 2001-05 e seguenti), in Luxottica, con gli accordi del 2011-12 nel centro logistico di Sedico, e gli accordi 2012-13 per la fabbrica di Rovereto e infine in una media impresa come Gefran di Brescia, per le ipotesi di nuovi orari.

In questi casi emerge bene la possibilità di integrare una maggiore flessibilità produttiva per l’impresa con una maggiore personalizzazione dell’orario per il lavoratore. Questo incontro virtuoso e a somma positiva fra due esigenze temporali diverse, che sono di solito ritenute inconciliabili, è il risultato di un po’ di ingegneria degli orari, di un approccio sperimentale e di piccoli sacrifici da ambedue le parti che concedono qualche cosa, in cambio di soluzioni complessivamente più efficaci ed efficienti per tutti. L’incontro virtuoso può avvenire se le opzioni di scelta del lavoratore variano in un range predefinito e limitato (il Menù di orario) e se l’impresa ha una certa libertà di combinare i vari menù prescelti dai lavoratori con le proprie esigenze produttive. Le regole di combinazione per l’impresa e i menù di scelta per i lavoratori sono oggetto specifico degli accordi sindacali citati sopra, che sono tutti accordi di scambio reciproco a somma positiva: ogni attore concede qualche cosa e il risultato finale è un miglioramento per tutti.

 

  1. Il covid19, una occasione per cambiare paradigma: più produttività, più occupazione, più formazione

Tutte le osservazioni proposte convergono verso una conclusione: la gestione degli orari di lavoro nel nostro paese necessità di un profondo cambio di paradigma. Il modello industriale standard, basato sulle 8 ore giornaliere e sulle 40 ore settimanali, stabili e rigide, già superato in alcuni settori e nei casi innovativi richiede un mutamento verso orari più flessibili per l’impresa, ma anche più corti per favorire l’occupazione, e più personalizzabili dal lavoratore e dalle donne. Ci deve essere inoltre più spazio per la formazione sia a fini di mercato (pagata dall’impresa) sia a fini personali (a carico del lavoratore)

In sintesi, si deve concludere che va abbandonata la giornata tipo del lavoratore come era stata pensata nell’800: cioè 8 ore di lavoro, 8 ore di sonno, 8 ore di recupero (8×3=24). Si tratta di un modello collaudato che all’epoca era molto avanzato, ma che oggi è antico. Esso non è più in grado di sorreggere i nostri sistemi produttivi ad alta tecnologia, alta flessibilità e con richieste di conoscenze nuove, diffuse e in rapida evoluzione. Oggi è necessaria una riduzione di orario di lavoro limitata ma generalizzata, con variabilità concordabile tra azienda e persone e con ore (almeno1 o 2 ore al giorno) di formazione continua obbligatoria per tutti, probabilmente anche a distanza per poter raggiungere tutti con strumenti digitali adeguati.

La situazione creatasi con la pandemia ci offre una straordinaria possibilità di sperimentare diffusamente nuove soluzioni e nuovi paradigmi di gestione degli orari in modo generalizzato e condiviso tra gli attori (imprese, lavoratori, sindacati, autorità politiche). Siamo nella classica situazione in cui i vincoli e i mali improvvisi creano una straordinaria opportunità di innovazione. Il Covid ha creato la situazione ideale per sperimentare il nuovo. Infatti ci sono diffuse necessità di variare le ore di lavoro per il crollo dei mercati. Le ore perse possono essere ripagate dallo Stato, c’è la possibilità di effettuare nelle ore di cassa una formazione di massa obbligatoria. 

In queste condizioni ci sono molti mesi per abolire gli straordinari e per sperimentare variazioni di orario passando da un massimo di 40 ore a minimi molto bassi, senza arrivare a zero ore, con lo scopo di preservare gli organismi produttivi e le loro competenze (la cassa integrazione a zero ore è distruttiva e va evitata). Inoltre c’è spazio per collocare nei flessi una formazione di massa obbligatoria su temi di innovazione o su basi tecnologici, scientifici o di miglioramento continuo. È prevedibile che le soluzioni di solidarietà e di riduzione delle attività, combinando ammortizzatori sociali con orari ridotti, potrebbero consentire di superare anche periodi lunghi e a singhiozzo senza ricorrere a licenziamenti di massa.

La nostra proposta prevede che si proceda in parallelo con la contrattazione collettiva e con una legislazione di sostegno. Da una parte gli attori sociali devono stipulare accordi di settore, o filiera, o territorio o di azienda con le seguenti finalità: 

1. Ridurre a quasi zero lo straordinario, 

2. definire le modalità di variazione di orario tra massimo e minimo in funzione del mercato e con spazi di personalizzazione, 

3. concordare modalità per usufruire della cassa integrazione, 

4. Definire modalità e occasioni di formazione di massa dei lavoratori. La formazione continua potrebbe essere regolata più efficacemente di oggi da Comitati scientifici bilaterali di settore o filiera o territorio per indirizzare i contenuti e i metodi da adottare e per coordinarsi con il sistema dei finanziamenti sia europei (FSE, gestiti dalla Regioni), sia nazionali e dei Fondi interprofessionali

Dall’altra è opportuno sviluppare una legislazione di sostegno con gli obiettivi di: 

1. rimuovere i vincoli normativi che ostacolano le soluzioni da sperimentate (in particolare per il part time, la flessibilità e i menù di scelta e le banche ore), 

2. indirizzare opportunamente gli incentivi verso la produttività, la flessibilità, l’innovazione e l’occupazione, 

3.  ridefinire le procedure per la cassa integrazione oggi inadeguate.

Sul lungo periodo e dopo la fine della pandemia, i nuovi sistemi di orario ridotti e le soluzioni a part time incentivato che saranno sperimentate e messe a punto nelle aziende, filiere o settori, potranno essere stabilizzate e rese definitive dopo opportune verifiche tra gli attori sociali e le autorità politiche.  

E’ importante ricordare che su questi temi la sperimentazione sociale e la progettazione congiunta e partecipata delle soluzioni sono il metodo cardinale per risolvere al meglio i problemi, Qualsiasi soluzione calata dall’alto anche se a forza di legge, rischia di andare vuota e inapplicata. Gli attori sociali devono perciò mettersi in una ottica di sperimentazione di massa e di progettazione condivisa con i lavoratori e le rappresentanze delle soluzioni dei nuovi orari. Solo una adeguata sperimentazione e condivisione diffusa può assicurare i benefici di produttività, di occupazione, di personalizzazione e di formazione di massa a cui si è fatto cenno.

 

  1. Prerequisti della sperimentazione

Il cambio di paradigma prospettato sopra non può essere una operazione di razionalizzazione calata dall’alto. Né un semplice varco aperto nella legislazione per liberare le imprese e gli attori dai vincoli di legge esistenti. Deve essere una fase di sperimentazione collettiva, partecipata e monitorata nei suoi fabbisogni, effetti e risultati dai vari punti di vista. 

Ricordiamo soltanto alcuni dei prerequisiti di questa sperimentazione, impegnandoci ad approfondirli con ulteriori studi.

Un primo prerequisito è il superamento della asimmetria informativa tra l’azienda e le rappresentanze sui temi dell’andamento di mercato, gli ordini e la programmazione della produzione o servizio. A questo scopo è necessario che l’impresa fornisca le informazioni essenziali e metta in condizione le RSU di comprendere bene e compiutamente le esigenze produttive. Bisognerà potenziare di molto, il sistema delle informazioni e le strutture di partecipazione organizzativa. Si tratta tra l’altro di informazioni essenziali anche per monitorare i livelli di produttività e i premi di risultato. Un altro aspetto della asimmetria informativa riguarda la capacità di ambedue gli attori, azienda e sindacato, di comprendere i fabbisogni temporali delle diverse tipologie di lavoratori presenti; e di sapere dare risposte sufficientemente personalizzate a questi fabbisogni. Sarà necessario probabilmente utilizzare strumenti di indagine dei fabbisogni evoluti e mirati.

Un secondo prerequisito riguarda la capacità degli attori di sviluppare le possibili alternative di organizzazione degli orari per escogitare le soluzioni più adatte al contesto: a questo scopo potrebbe essere utile una formazione congiunta tra tecnici aziendali e Rappresentanze per creare un linguaggio comune e uno spirito di problem solving condiviso. Riguardo alle soluzioni innovative di nuovi regimi di orario c’è poi da affrontare la questione dei vincoli di legge sul part time e sugli orari, senza contare le possibili necessarie deroghe ai CCNL. Su questo è necessario un approfondimento di tipo giudico.

Un terzo prerequisito riguarda la formazione. Ci sembra inutile precisare che non si tratta dei soliti corsi a catalogo di tipo standard, come in passato è stata gestita la formazione continua in Italia. Bisogna progettare qualche cosa di radicalmente nuovo e diverso, con un approccio rivolto al futuro invece che agli obblighi del passato, con innovazioni sia nei contenuti che nei metodi. Questo problema potrebbe essere a nostro avviso meglio gestito da commissioni scientifiche di tipo paritetico, bilaterali tra aziende e rappresentanze, che diano indicazioni su contenuti e Metodi adatti al settore, filiera o territorio indirizzando gli erogatori. Per quanto riguarda il finanziamento della formazione gli oneri sono già coperti in gran parte da fondi disponibili (fondi interprofessionali, FSE e Fondi regionali), il problema è legato a quale formazione. Ci sono alcune problematiche irrisolte che riguardano i fabbisogni collegati direttamente all’interesse dell’impresa (formazione per il mercato) che non è facile soddisfare. Questa formazione dovrebbe essere realizzata in orario di lavoro anche part time e progettata con modalità diverse dal passato. C’è poi l’esigenza di una formazione di massa su argomenti solo apparentemente scollegati dall’interesse dell’impresa, da realizzare fuori dall’orario di lavoro con modalità innovative e su argomenti che hanno un impatto sull’occupabilità e sulla cittadinanza (competenze digitali, cultura ambientale, innovazione, capacità trasversali). 

Infine il più importante dei prerequisiti è il problema degli incentivi alle imprese e delle risorse per finanziare i salari nel periodo transitorio di pandemia (CIG e SURE) e nel periodo successivo a regime del nuovo paradigma. La nostra ipotesi è che, a parte la questione della cassa integrazione, gli altri incentivi pubblici abbiano una natura selettiva. Le risorse pubbliche dovrebbero essere collegate a piani di ristrutturazione degli orari realizzati sulla base della contrattazione, anche di settore, filiera o territorio. Manovre di questo tipo implicano valutazioni di carattere organizzativo, collegate anche ad investimenti in tecnologie che non possono essere gestiti con interventi ope legis o regimi di compensazione di carattere automatico o con semplici bandi anche a sportello. Forse potrebbe essere utile un supporto da parte di qualche soggetto nazionale che lavori a stretto contatto con le parti sociali, datoriali e sindacali, e che si facesse anche carico del monitoraggio della sperimentazione e dei suoi risultati. 

In conclusione, il nostro auspicio è che le proposte avanzate sopra possano diventare una traccia per elaborare un programma pluriennale di investimenti innovativi anche per rispondere   a quanto ci viene richiesto in questa fase  dalla Commissione Europea di Bruxelles. 

 

da Mondoperaio di Giugno
https://www.mondoperaio.net/in-primo-piano/comunicato-agi-speciale-mondoperaio-su-tobagi/

 

 

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