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La distribuzione della ricchezza in Italia: chi paga per tutti

La redistribuzione della ricchezza, una frase sempre più sulla bocca dei politici assieme ai vocaboli “diritti e disuguaglianze”: mai che capiti una citazione del sostantivo “dovere/i”. E questo, anche a causa del perenne clima elettorale e della spasmodica ricerca del consenso che caratterizza tutte le formazioni politiche, svuotandole di qualsiasi aggettivazione (destra, sinistra, liberali, socialisti e così via); tutti a promettere soldi e bonus e per la gran parte a debito, cioè a carico di quelle giovani generazioni che questi “politicanti” vorrebbero proteggere. Parole d’ordine: riduzione delle tasse, bonus di tutti i tipi e flat tax. 

Ma a quanto ammonta la redistribuzione in Italia? Cerchiamo di calcolarla in base ai dati elaborati da Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali a partire dall’analisi delle dichiarazioni dei redditi del 2018, redatte nel 2019 e lavorate nel giugno di quest’anno. Poiché il 43,88% dei contribuenti dichiara redditi da zero o addirittura negativi a 15mila euro lordi l’anno, (una media di meno di 7.500 euro l’anno per vivere) versa solo il 2,42% di tutta l’IRPEF e un altro 13,84% ne versa il 6,56%, significa che il 57,72% degli italiani versa – al netto del bonus Renzi – l’8,98% dell’IRPEF cioè 15,4 miliardi, pari a soli 442 euro in media per ognuno dei 34,84 milioni di cittadini. In pratica, oltre la metà del Paese vive a carico di qualcuno e certamente non è oppressa dalle tasse. Ed è veramente difficile immaginare un membro del G7 in queste condizioni tipiche di uno Stato in via di sviluppo, ma ai più importanti “influencer” del Paese – politici, sindacati, chiesa e media – questa cosa va bene perché parlare di poveri, di redistribuire soldi che non ci sono, di tassare di più gli odiati ricchi, porta consensi e plausi.

Figura 1 – Confronto tra la percentuale di dichiaranti e la percentuale di IRPEF versata per fasce di reddito

Fonte: elaborazioni a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

 

E vediamola questa redistribuzione. Iniziamo con la sanità, la cui spesa totale è di 115,45 miliardi pari a 1.886,5 euro pro capite. Per garantire i servizi sanitari al citato 57,72% di italiani, occorrono 50,325 miliardi che sono a carico soprattutto del 13,08% della popolazione con redditi da 35mila euro in su che versa il 59% dell’IRPEF, mentre il restante 29,20% è autosufficiente per la sanità che costa, compresa la quota della persona a carico, 2.752 euro, contro un’imposta media pagata al netto del bonus di 4.555 euro. Il rapporto contribuenti/popolazione è 1,459. Poi viene la spesa per assistenza a carico della fiscalità che costa 105,66 miliardi, pari a 1.750,51 euro pro capite (nel 2019 tale spesa è aumentata a 114,27 miliardi), e che serve per garantire tutte le assistenze alla famiglia, ai soggetti privi di reddito, ai pensionati assistiti (quasi il 51% dei 16 milioni di pensionati italiani), ai disoccupati e agli invalidi. Per finanziare la parte di spesa non coperta dal 43,88% degli italiani senza redditi e da quelli che versano una imposta inferiore a 5.306 euro (sanità + assistenza fanno 3.637 euro x 1,459 = 5.306 euro), occorrono altri 70,07 miliardi che sono a carico prevalentemente del “solito club” del 13,08%, cioè di 5,408 milioni di contribuenti, pari a 7.890.586 cittadini, e in parte di quel 29,20% che, autosufficiente  per la sanità con un’imposta media di 4.555 euro, concorre all’assistenza per il 71%, cioè 1.803 euro su 2.554, lasciando il resto ai contribuenti di fascia più elevata. 

Potremmo proseguire ma ci fermiamo all’istruzione: una spesa pari a circa il 3,6% del PIL, che vale circa 62 miliardi con un costo pro capite di 1.027 euro, questa volta a totale carico del suddetto 13,08%, per una redistribuzione pari a 53,89 miliardi.

Figura 2 – Il dettaglio della redistribuzione per sanità, assistenza e istruzione

Fonte: elaborazioni a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

 

Ricapitolando, per queste sole tre funzioni, seppur di rilevante importo (le pensioni sono escluse in quanto quelle vere pagate dai contributi sono in equilibrio), la redistribuzione totale è pari a 174,28 miliardi su circa 580 miliardi di entrate al netto dei contributi sociali di cui 245 miliardi di imposte dirette: in pratica, viene redistribuito il 71% di tutte le imposte dirette. Facendo la riprova sulla spesa pubblica totale, pari per il 2018 a 853,62 miliardi, al netto del deficit annuo di 37,5 miliardi, la spesa pro capite è di 13.520 euro per abitante e solo poco più del 4,36% dei cittadini versa un’IRPEF da 14.783 a 173.900 euro e, quindi, sarebbe più che autosufficiente; se si considera che le restanti imposte dirette (IRES, IRAP e ISOST) sono prevalentemente a carico di poco più del 13,08% dei contribuenti e che le imposte indirette sono proporzionate ai redditi dichiarati, la percentuale di redistribuzione aumenta ancora. 

Figura 3 – La redistribuzione delle imposte dirette

Fonte: elaborazioni a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

 

Non c’è però solo una redistribuzione tra cittadini ma anche tra zone geografiche. Solo a titolo di esempio la Lombardia, con circa 10 milioni di abitanti, versa più IRPEF di tutto il Mezzogiorno (8 regioni e oltre 23 milioni di abitanti). Alla luce di questi dati ha ancora senso parlare di riduzione del carico fiscale e di redistribuzione per mitigare le disuguaglianze? Perché non dire finalmente la verità agli italiani, e cioè che di soldi non ce ne sono più, che abbiamo fatto troppo debito e che i nostri giovani, con un Paese così indebitato, potrebbero perdere la loro libertà economica? Sarebbe un atto di alta educazione civica che ridurrebbe la “povertà educativa e sociale” troppo diffusa tra la popolazione e anche nella classe politica, e incentiverebbe tutti a rimboccarsi le maniche e darsi da fare senza chiedere sempre allo Stato.

La prima cosa da fare sarebbe l’abolizione di tutte le deduzioni, le detrazioni e i bonus che si ottengono se si dichiara un reddito basso (in genere circa 15mila euro): questo, pur se corretto in linea di principio, è il primo incentivo statale a eludere ed evadere. Bisognerebbe ridurre questi bonus e darli a tutti perché chi paga le tasse ha diritto ad avere perlomeno gli stessi servizi di chi le tasse non le paga, e attenzione(!) perché si parla sempre di redditi lordi! Facciamo allora un esempio: un reddito di 200.000 euro lordi l’anno è pari a 10 volte un reddito da 20.000 euro lordi l’anno, ma il netto di 200.000 euro è all’incirca pari a meno di 7 volte a parità di nucleo familiare (marito, moglie e due figli); se consideriamo poi la differenza sui servizi, ticket sanitari, rette universitarie, mensa scolastica, trasporti, deduzioni e detrazioni per carichi di famiglia e altro, la differenza si riduce a meno di 5 volte. In media, nel 2018, con l’effetto bonus, le imposte pagate da un lavoratore dipendente con un reddito tra 100.000 e 200.000 euro sono pari a 98 volte quelle di un reddito tra 7,5 e 15.000 mila euro; con oltre 300mila euro di reddito, l’imposta equivale a 548 lavoratori tra 7.500 e 15mila euro (129 con redditi tra 15 e 20mila).

Occorre quindi introdurre anche sulle spese familiari il “contrasto di interessi” di cui abbiamo scritto più volte su queste pagine, eliminare i tetti minimi per aver diritto ai bonus vari e mandare a tutti i cittadini un estratto conto che indichi le tasse pagate e i benefici di cui hanno goduto così la gran parte si renderà conto che ha pagato molto meno dei servizi ricevuti. Oltre a una certa età (35 anni), occorrerebbe poi convocare chi non ha mai fatto una dichiarazione dei redditi per sapere di cosa vive; infine, bisognerebbe chiedere ai milioni di neopensionati assistiti il motivo per cui in 67 anni di vita non hanno versato contributi e tasse, anziché pagare a piè di lista.

Sono le uniche azioni che consentono una riduzione dell’evasione fiscale, di cui siamo primi in classifica, e un aumento dello sviluppo di cui siamo ultimi.

 

*Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

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