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Prossima Europa, ci vuole una vera federazione

L’applauso ricevuto in Senato, il Presidente del Consiglio se lo è indubbiamente meritato. E non tanto nella sua qualità di capo del governo italiano ma soprattutto in quanto – come leader pro tempore di un importante paese membro dell’Ue – ha contribuito e non marginalmente ad un accordo che potenzialmente rappresenta per l’Unione stessa uno straordinario salto di qualità. 

Dal punto di vista nazionale, infatti, sarebbe opportuno valutare con prudenza la rilevanza del programma Next Generation Eu. Il ricorso al mercato da parte dell’Unione europea sarà infatti possibile solo in quanto nuove risorse (una plastic tax dal 1° gennaio 2021 e, a seguire, una o più imposte ambientali e, si spera, una vera digital tax europea) affluiranno nel bilancio dell’Unione garantendo il servizio ed il rimborso del debito. Solo in quanto, cioè, i paesi membri trasferiranno a Bruxelles significative basi imponibili. Di conseguenza, nel caso dei grants, il guadagno netto per l’Italia sarà pari alla differenza fra l’importo degli stessi (81,4 miliardi) ed il gettito delle maggiori imposte derivanti dalle basi imponibili trasferite all’Unione. 

Supponendo che l’Italia contribuisca al gettito complessivo delle nuove imposte in proporzione al prodotto (e quindi per il 13% circa) e dato che i grants che l’Italia riceverebbe sarebbero pari al 21% circa del totale, il guadagno netto sarebbe pari a 30 miliardi circa ai quali andrebbe aggiunto il guadagno netto (circa 15-18 miliardi) derivante dalla possibilità di poter contrarre debiti per circa 127 miliardi a tassi prossimi allo zero. In totale dunque qualcosa fra i 40 ed i 50 miliardi di euro. Una cifra significativa ma ben lontana dall’essere decisiva. Per avere un termine di paragone, basti pensare che portare lo spread ai livelli della Spagna porterebbe ad un risparmio di circa 25 miliardi in dieci anni. E per ottenerlo sarebbe sufficiente annunciare credibilmente e poi mantenere un rigoroso piano di rientro del debito.  

Sarebbe bene, poi, non sottovalutare le previsioni in tema di governance che l’accordo raggiunto dal Consiglio europeo contiene. Il punto A19 dell’accordo è chiarissimo: le risorse vanno utilizzate per rafforzare il potenziale di crescita, la creazione di lavoro e la resilienza degli stati membri (con un occhio o forse anche due alle transizioni verde e digitale). E non per altro. Alla Commissione spetta la valutazione dei piani nazionali di riforma e la conseguente formulazione di una proposta sulla quale il Consiglio si esprime a maggioranza qualificata.  

Gli esborsi sono controllati dalla Commissione, previa la valutazione dell’Ecofin sul raggiungimento degli obiettivi da parte dello Stato membro. Qualora uno o più stati membri in sede di Ecofin dovessero considerare insoddisfacente la performance del singolo stato membro la questione verrebbe demandata al Consiglio europeo che terrebbe fermo ogni esborso fino a quando la questione fosse discussa esaurientemente (e di norma per tre mesi). 

Nell’accordo c’è la previsione di maggioranze qualificate e dunque di minoranze di blocco: almeno quattro paesi membri in rappresentanza di almeno il 35% della popolazione dell’Unione. Comprensibilmente, la parola decisiva spetterebbe alla Germania. Difficile pensare che una condizionalità come quella descritta non sia rilevante (e ancor più difficile comprendere come la si possa considerare meno significativa di quella implicita nel Mes di ultima generazione). Fin qui l’accordo.

 Rimane poi tutto da scrivere l’atteggiamento italiano rispetto a quella che certamente è una importante opportunità. Se si torna con la mente al dibattito di questi ultimi due anni si arriva alla conclusione che la stragrande maggioranza della nostra classe politica ritiene che per sostenere il potenziale di crescita si debba spendere. Punto, o quasi. 

Le domande.

Ci limiteremo a dire questo a Bruxelles? E che fare con quei provvedimenti che corrono il rischio invece di limitare e significativamente il nostro potenziale di crescita (da quota 100 al decreto dignità, per fare solo due esempi)? Tornare indietro in questi casi ci restituirebbe potenziale di crescita: lo faremo? Una riforma fiscale contribuirebbe a rafforzare il nostro potenziale ma sarà in grado il governo di disegnarla isolando i costi della transizione (gli unici probabilmente finanziabili con le risorse europee)? 

Dal punto di vista temporale, gli interventi dovrebbero materializzarsi nel triennio 2021-2023: la nostra classe politica dimenticherà il ciclo elettorale? Se così fosse, l’Europa avrebbe compiuto un miracolo. Se così non fosse, la condizionalità sopra descritta interverrebbe e per un paese ad alto debito come l’Italia tutto diverrebbe molto più difficile. Dal punto di vista italiano, il passo in avanti c’è ma è forse più piccolo e più impegnativo di quanto non si immagini. Parafrasando Neil Armstrong, si potrebbe dire «un piccolo passo per l’Italia, un grande passo per l’Europa». Perché l’accordo fa fare potenzialmente un passo in avanti netto nella dimensione sovranazionale dell’Unione. La Bce sta da mesi finanziando il debito pubblico dei paesi membri, mantenendo condizioni di stabilità e tassi di interesse prossimi allo zero. Next Generation EU – per quanto «limitato nella dimensione, nella durata e negli obiettivi», come recita l’articolo A4 dell’accordo – completerà il mix di politica economica, agirà tramite il bilancio dell’Unione e di fatto per la prima volta con l’emissione di debito pubblico da parte della Commissione europea, avvicinandoci e non poco al comportamento di stati pienamente federali. 

E quel che è ancora più importante è che a garanzia del debito starà una parziale ma significativa cessione di sovranità fiscale da parte degli Stati membri. In questo quadro c’è un altro applauso per il quale il Presidente del Consiglio può adoperarsi fin d’ora: oltre a rispettare puntualmente gli impegni, lavori, d’intesa con gli altri leader (a partire dalla Cancelliera che ha ancora una volta mostrato la sua statura di statista), perché i limiti del Next Generation EU «nella dimensione, nella durata e negli obbiettivi» siano attenuati fino a sparire. Per farlo, il Presidente del Consiglio, che ha difeso con caparbietà i margini di libertà del paese nell’utilizzo dei fondi, dovrà combattere per convincere la politica italiana e i colleghi europei che una ulteriore cessione di sovranità sul piano della politica economica (accompagnato da un peso accresciuto del Parlamento europeo) è il passo ulteriore da compiere nell’interesse generale. Una virata di 180 gradi che le doti di duttilità del Presidente del Consiglio rendono non impossibile. Una virata necessaria se il destinatario degli sforzi odierni deve essere la prossima generazione e non solo il prossimo appuntamento elettorale. 

 

*da L’Economia – Corriere della Sera, 27 luglio 2020

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