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Della purezza e del metodo nell’ impegno politico

“Se [di fronte alla pandemia Covid-19] qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà”. E’ la postilla con cui Papa Francesco apre la sua lettera, la nuova enciclica, che andava scrivendo prima della crisi. E subito capiamo che quella lettera ci sarà di aiuto nell’impegno politico per cambiare rotta, qualunque sia la nostra religione o non-religione. 

Conoscevamo il suo pensiero sul “ritorno indietro” che, sotto la spinta del neoliberismo, le nostre società hanno compiuto: ingiustizie e “scarto mondiale”, “doppia povertà delle donne”, “dissoluzione dell’identità delle regioni più deboli”, “dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata”, “manipolazione e deformazione delle parole”, “aggressione sociale” e “perdita di pudore” attraverso il mezzo digitale, e altro ancora. Conoscevamo il suo segnale alla Chiesa e a tutte e tutti di impegnarsi, allora, per cambiare questo stato di cose; un messaggio che prende qui ulteriore forza, nell’auspicio che i “movimenti popolari che aggregano disoccupati, lavoratori precari e informali e tanti altri”, che “danno vita a varie forme di economia popolare e di produzione comunitaria … confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino”. Ma in questa lettera c’è di più. Ci sono strumenti per il metodo con cui attuare il nostro impegno civico e politico. Strumenti che incontrano e rafforzano altre idee, provenienti da altre culture. E che dunque contribuiscono a costruire solidi ponti che possiamo percorrere. 

Mi soffermo su due di questi ponti che danno corpo al principio che muove la lettera: “fraternità e amicizia sociale”. Ma prima lasciatemi rappresentare con quanta forza questo principio parli, prima ancora che alla nostra ragione, ai nostri sentimenti, al nostro istinto morale. 

Come argomentano, in modi pur diversi, la teoria della libertà sostanziale di Amartya Sen, la teoria dei fondamenti morali e altri impianti concettuali, a partire da Adam Smith, è istintivo in noi il senso di valori fondamentali. Fra questi sta la nostra pulsione verso valori non discutibili, puri, la cui violazione è in sé “male”. Percepire ogni essere umano come fratello o sorella con cui costruire amicizia sociale è un simile valore: reprimere in noi stessi e in altri questo valore, nasconderlo, non coltivarlo, è in sé “male”. Si tratta di un’alternativa radicale all’altro valore che l’ingiustizia sociale e la rabbia prodotte dal neoliberismo hanno estratto dal nostro istinto: l’omogeneità, l’uniformità etnica, culturale, di idee, la cui violazione, appunto, ci appare come “male”. Nell’impegno per cambiare rotta, mentre costruiamo azioni collettive e pubbliche guidate dalla ragione che pieghino l’ingiustizia sociale, dobbiamo anche lavorare sul fronte dei sentimenti istintivi. Dobbiamo convincerci e convincere che la purezza sta nella fraternità e nell’amicizia sociale, non nell’omogeneità. E anche per arrivare a questo esito abbiamo bisogno di metodo. A cui vengo.

Il primo contributo di metodo della lettera di Papa Francesco sta nella risposta alla domanda: quanto prossimo è il “prossimo” con cui sentirci sorelle e fratelli? Tanto lontano quanto è possibile – risponde Papa Francesco. Prossimo è ogni altro essere umano, come fu il viandante sconosciuto, mezzo morto in strada, per il buon samaritano. Ma a questo universalismo possiamo arrivare – egli aggiunge – a partire da quella relazione speciale che avvertiamo per il “prossimo” a noi più vicino, quello della nostra comunità. “Bisogna prestare attenzione alla dimensione globale – scrive – per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con i piedi per terra. Le due cose unite impediscono di cadere in uno di questi due estremi: l’uno, che i cittadini vivano in un universalismo astratto e globalizzante …; l’altro, che diventino un museo folkloristico di eremiti localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose”. “La dimensione locale … possiede qualcosa che il globale non ha: essere lievito, arricchire, avviare dispositivi di sussidiarietà. Pertanto, la fraternità universale e l’amicizia sociale all’interno di ogni società sono due poli inseparabili e coessenziali. Separarli conduce a una deformazione e a una polarizzazione dannosa”. E ancora: “Non mi incontro con l’altro se non possiedo un substrato nel quale sto saldo e radicato, perché su quella base posso accogliere il dono dell’altro e offrirgli qualcosa di autentico. È possibile accogliere chi è diverso e riconoscere il suo apporto originale solo se sono saldamente attaccato al mio popolo e alla sua cultura.” 

E’ un messaggio netto, che richiama ciò che il filosofo Kwame Appiah definisce “cosmopolitismo parziale”: essere e sentirsi cittadini dell’universo, nel duplice senso di sentirsi impegnati e impegnarsi verso ogni altro essere umano e di rispettare e aprirsi alla diversità; e al tempo stesso avvertire, ognuno di noi, un senso di lealtà e di legame comunitario con chi ci è più vicino nelle molteplici dimensioni del nostro essere e agire. E’ un messaggio che ci suggerisce come dialogare e lavorare oggi con le persone più vulnerabili e dei luoghi marginalizzati – che siano periferie o aree interne, coste o campagne deindustrializzate – che sono portate dalle ingiustizie a considerare la diversità, frutto del cosmopolitismo, come il nemico: mai dobbiamo schiacciarle in modo arrogante sotto l’accusa di “razzismo”, dimentichi di quanto per alcuni di noi, più fortunati, sia facile essere aperti e cosmopoliti. Dobbiamo, viceversa, avviare il dialogo partendo dalla loro identità e “dignità comunitaria” e dando il nostro contributo a disegnare azioni pubbliche e collettive che consentano di superare le trappole della marginalizzazione, e poi, su questa base, lavorare a percorsi di apertura alla diversità. 

E siamo così all’altro contributo di metodo che arriva con forza: come costruire il percorso di cambiamento, attraverso dialogo sociale, conflitto, patto sociale. 

Il principio di fratellanza e sorellanza produce “il gusto di riconoscere l’altro … di riconoscere all’altro il diritto di essere sé stesso e di essere diverso”. E’ la base del dialogo, indispensabile nel consentire alle forze del cambiamento di coagularsi e di trovare una piattaforma comune. “Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto”, questo è il “dialogo sociale”. L’incontro di punti di vista e interessi diversi produrrà tensioni e conflitti. Non è una novità per la Chiesa riconoscere che “i conflitti di interessi tra diversi gruppi sociali insorgono inevitabilmente e che di fronte ad essi il cristiano deve spesso prender posizione con decisione e coerenza”. Sono le parole di Giovanni Paolo II riprese dalla lettera, la quale aggiunge: “il modo buono di amare [un oppressore] è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano”. Ma il “progresso dell’umanità” viene dalla “risoluzione” delle tensioni create nel dialogo, dall’emergere di spazi di convergenza e di un “patto sociale”, dalla condivisione di “verità fondamentali che devono e dovranno sempre essere sostenute”. 

Affinché questa convergenza abbia luogo serve convincerci che, pur nella “varietà di prospettive” e di “apporti di diversi saperi e punti di vista”, quella convergenza possa davvero emergere. E serve “accettare la possibilità di cedere qualcosa per il bene comune”: “la ricerca di una falsa tolleranza deve cedere il passo al realismo dialogante, di chi crede di dover essere fedele ai propri principi, riconoscendo tuttavia che anche l’altro ha il diritto di provare ad essere fedele ai suoi.” E’ il fondamento del pubblico dibattito, a sua volta fondamento della democrazia. E’ quel “confronto acceso, aperto, informato e ragionevole” che, di nuovo, secondo Amartya Sen può condurre a trovare “intersezioni” e dunque decisioni condivise pure fra visioni e impianti concettuali profondamente diversi. Sempre che, ci dice Sen, si eserciti una doverosa “miopia”: si guardi cioè agli effetti sul bene comune domani, e non al raggiungimento del proprio ideale futuro. 

A leggere queste “raccomandazioni” di metodo, viene quasi da considerarle ovvie. Non si commetta questo errore. E’ l’effetto che fanno le parole e i concetti forti e limpidi. In realtà, quelle raccomandazioni sono costantemente ignorate o abbandonate. Anzi, sono cinicamente disprezzate da chi irride alla “democrazia deliberativa” o alla “partecipazione”, al tempo dedicato al “pubblico confronto”, considerandoli come u mero orpello, al meglio un pio desiderio irrealizzabile. E’ per questa ragione che la politica si è avvilita. E con questo metodo che può tornare ad animarci.

 

*Coordinatore del Forum Disuguaglianze Diversità

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