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Una nuova stagione del lavoro

  • “Non sarà più come prima”. Ce lo siamo ripetuto come un mantra, man mano che l’epidemia sanitaria segnava questo sconvolgente 2020. Ora, ce lo ricordiamo in modo più intermittente, perché la parallela crisi economica e sociale spinge un po’ tutti sulla difensiva, a desiderare e lottare perché tutto ritorni come prima. Eppure sappiamo che non potrà essere così, che molto veramente cambierà. Non è una previsione, è una certezza. L’Europa ha messo già le premesse, spostando la propria politica economica e sociale su un keynesianesimo mai visto, neanche nel secondo dopoguerra del secolo scorso. 

    Alcuni Paesi, come Francia e Germania, hanno già messo a punto corposi e puntuali programmi per l’utilizzo delle nuove disponibilità finanziarie previste. In Italia, per non smentirci, si va alle calende greche. C’è sempre un motivo per rinviare decisioni difficili ma necessarie. Il risultato dell’impasse in cui versa la capacità di visione lunga dei decisori politici, è che ciascuno cerca di far sopravvivere ciò che conosce, ciò che ha tra le mani, ciò che sa fare. Senza un briciolo di speranza, ci si aggrappa a quel che c’è o sembra esserci. La risposta assistenzialista non manca, ma non soddisfa. Non è sufficiente per attutire le rabbie che crescono nelle piazze, più o meno riempite con il tam tam digitale e spesso strumentalizzate dall’opposizione politica.

    In questo procedere confuso, si vanno consolidando tendenze negative, specie per il lavoro. Il mondo del lavoro autonomo è terremotato e per molti è incerto il futuro delle loro attività. Sul fronte del lavoro dipendente si sono già persi più di 600.000 posti di lavoro – specie a tempo determinato – soprattutto nel terziario meno qualificato; donne e giovani sono stati le vittime di questo calo. La situazione sarebbe più drammatica se non ci fosse il blocco dei licenziamenti; riguarda per lo più uomini e donne assunti a tempo indeterminato, per ora parcheggiati nella CIG straordinaria o Covid, ma dal futuro incerto. Questi sono tutti a casa.

    Ma a casa ci sono anche quei lavoratori prevalentemente addetti ad attività digitali di varia complessità. Nomisma stima che riguardi 2 milioni di persone, per lo più non minacciate da perdita del posto di lavoro ma “invitate” dalle aziende, su sollecitazione del Governo, a non presentarsi in ufficio per ridurre il rischio di contagio, anche in questa seconda ondata. Per molte di queste persone si profila un cambio esistenziale del modo di lavorare. 

    Infatti, se il boom del lavoro a distanza, altrimenti noto come smart working, si è avuto nei primi mesi di quest’anno, questa modalità è prevista legislativamente dal 2017 e contrattualmente da alcuni dei più recenti accordi collettivi. Soltanto che mentre nel 2019 le aziende che l’avevano introdotto erano il 15%, sostanzialmente per esigenze personali più che per riorganizzazione aziendale, l’anno successivo ha riguardato il 77% delle medie e grandi imprese e per numeri di personale enormemente più elevato. L’obbligatorietà era nei fatti e aveva trovato anche il consenso dei sindacati e dei lavoratori. 

    Tutto lascia prevedere che non sia una prospettiva temporanea, di emergenza. Anzi, la maggior parte delle aziende private e delle pubbliche amministrazioni sta prendendo in seria considerazione l’ipotesi di renderla strutturale. Lavorare distanziati ma condividendo ciò che si fa potrebbe diventare, per un numero consistente di lavoratori digitali, la normalità. Sarebbe una mutazione epocale, questa sì di definitivo superamento del fordismo del secolo scorso. Il lavoro che si può svolgere in luoghi a scelta del lavoratore e non in un unico luogo, cambia il modo di valutarlo. Non più “come” e “dove” si produce, ma “ciò” che si realizza diventa centrale nella valutazione professionale, salariale e dei diritti e doveri da rispettare da ambo le parti. Gli effetti sono ancora tutti da verificare, ma la tendenza pare proprio irreversibile. A maggior ragione, occorrerà una profonda revisione della cultura manageriale, una rivisitazione dei ruoli e delle funzioni dei soggetti coinvolti.

    Per le lavoratrici e i lavoratori interessati, il punto di maggiore criticità riguarda la tutela della propria privacy, non essere pressati continuamente da quelli da cui dipendono. Bisogna definire con pignoleria sia il dovere alla connessione, sia il diritto alla disconnessione e al coinvolgimento sociale. Il lavorare come e dove si vuole non può essere barattato con una minore tutela delle esigenze di vita privata. Il confine tra queste due polarità è più sottile di quanto si possa pensare. Riguarda una diversa valutazione del tempo di lavoro, sia ordinario che straordinario; implica un rapporto tra comando ed esecuzione più fluido e collaudato; propone la definizione di ciò che si realizza con modalità meno meccaniciste e più personalizzate.In particolare, per le mansioni lavorative che lo consentono, sarà opportuno spostare radicalmente la progettazione e misurazione della prestazione più su obiettivi condivisi che non sulla condotta operativa. Un rompicapo per i gestori della contrattazione collettiva che devono trovare il giusto equilibrio tra normativa omogenea e soggettività del fare.

    Anche per i sindacati, si apre uno scenario nuovo, sia per adeguare la contrattazione, sia per essere effettivamente rappresentativi e quindi capaci di coinvolgere i lavoratori in modo responsabile e partecipato. Quanto erano facilitati i sindacalisti dell’industrialismo! Grandi concentrazioni di lavoratori, meccanicità diffusa e ripetitiva, gerarchizzazione ben definite, luoghi di confronto e discussione con i militanti a portata di mano. Lo smart working può rendere obsoleti sia alcuni strumenti contrattuali che storiche modalità di rappresentare, ora esistenti. Le controparti potrebbero approfittarne per mettere il sindacato fuori gioco, a meno che sin d’ora vengano ideati innovativi obiettivi contrattuali e di democrazia partecipativa.

    Infine, lo svuotamento delle sedi lavorative ha un impatto sull’ambiente urbano – specie dove esistono significative concentrazioni di queste sedi – a dir poco devastante. Da un lato, si avrebbero immobili in esubero e per molti di non facile riuso, dall’altro lato molti servizi – più o meno indotti delle attività decentrate con il lavoro a distanza – perdono la ragione della loro esistenza. Sono soprattutto attività di medie e piccole aziende, ad alta intensità di lavoro che compartecipano al cambiamento del panorama urbano, oltre che al ridimensionamento occupazionale. Si delinea un costo sociale di non facile determinazione ma che di sicuro si scarica sulla collettività e che forse andrebbe governato piuttosto che subito passivamente. Oltre che a responsabilità non eludibili da parte delle aziende e del sindacato, entrano in gioco le responsabilità degli enti locali e della politica e quindi l’affermazione di una visione più completa della riprogettazione delle realtà urbane.

    In definitiva, lo smart working è soltanto uno spaccato del “non sarà più come prima”, ma va assunto in tempo come un grande stimolo al cambiamento per non dover registrare che ha creato più problemi di quanti effettivamente ne risolva. Anche in questa materia, prevenire è meglio che curare….   

      

      

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