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Una vita intensa ed esemplare

La scomparsa improvvisa e inattesa di Franco Marini mi colpisce profondamente sul piano personale. Non sono in grado di scrivere una commemorazione formale; l’interessato mi avrebbe ruvidamente sconsigliato. D’altra parte tutta la stampa italiana lo ha fatto ampiamente ed egregiamente. L’emozione intima mi porta tuttavia a reagire con una testimonianza pubblica della mia esperienza politica con Marini, segnalando subito la ben diversa proporzione della sua rispetto alla mia. Mi impegna a riconoscerne la lucida visione e la realistica concretezza che lo hanno sempre caratterizzato. 

La mia conoscenza politica con Franco è iniziata 45 anni fa. Lui era già un agguerrito dirigente nazionale della CISL e un esponente politico di primo piano della corrente della Democrazia Cristiana di Forze Nuove capeggiata da Carlo Donat Cattin. Un raggruppamento di forte ispirazione cattolico-sociale, assai radicato nelle classi lavoratrici e operaie del nord Italia che Donat Cattin, già sindacalista cislino, capeggiava in modo accigliato e concreto com’era il suo temperamento. Marini ne era stato attratto proprio per questo carattere sociale e incisivo. Donat Cattin, ministro del lavoro nel 1970 fu decisivo per l’approvazione della legge sullo statuto dei lavoratori predisposto da una commissione presieduta da Gino Giugni. Una corrente di sinistra, nel panorama della Democrazia cristiana, perché fortemente orientata ai valori popolari del lavoro. Almeno all’inizio anche la corrente di base si era mossa con analogo pragmatismo e senso del riformismo sociale, almeno fin quando fu guidata da Giovanni Marcora ex partigiano e piccolo imprenditore; salvo poi perdere lentamente questo suo carattere. Forze nuove invece, prima con Donat Cattin e poi con Franco Marini fu sempre fedele alla sua ispirazione iniziale, e quando il suo fondatore si accorse che la spinta originaria si era attenuata ne decise lo scioglimento negli anni Ottanta, sperando che gli altri capi corrente facessero lo stesso.

Gioverà anche ricordare, magari per i più giovani, che le correnti, almeno nei primi decenni non furono certo un male per la Democrazia cristiana. Come disse Aldo Moro poco tempo prima di morire “siamo importanti perché amalgama di tante cose. Per questo non siamo declinati”. 

Io ero solo un giovane cattolico agguerrito, responsabile del volontariato sociale a Roma della Comunità di Sant’Egidio. L’occasione della nostra prima conoscenza furono le riunioni tra esponenti cattolici di varia provenienza per prendere posizione in occasione del referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio. Marini aveva una posizione di grande attenzione alle posizioni laiche e liberali di parti significative del mondo cattolico; ricordo che a certe riunioni non pubbliche veniva soprattutto per ascoltare. Questa sua attenzione mi colpiva perché non vedevo in lui chiusure ideologiche (come in molti dirigenti democristiani, o in larga parte della gerarchia religiosa), ma intuivo una ricerca di punti di possibile mediazione, di dialogo. Quel minimo comune denominatore al quale lui tante volte ha contribuito e che ha salvato e sostenuto il nostro Paese nel suo enorme percorso di crescita nel dopoguerra.

Io aderii allora al gruppo dei “cattolici democratici” con Scoppola, Gorrieri, Ardigò e Paolo Prodi. Nel 1974 facemmo pubblica propaganda per il no all’abrogazione, partecipando così ad una vittoria che di politico aveva poco. Certificava la fine dell’unità politica di larga parte dei cattolici, dopo la prima modernizzazione sociale e la secolarizzazione, dopo i movimenti profondi del ’68. Sanciva inoltre una prima pesante crepa nell’edificio enorme e possente della Democrazia Cristiana, sottovalutata dai suoi dirigenti escluso Moro assai preoccupato. La sconfitta della DC di Fanfani sostenuta dal Vaticano di mons. Benelli tuttavia ci illudeva che fosse possibile un rinnovamento dall’interno della Democrazia Cristiana. All’inizio del 1975 nacque così la Lega democratica, che aveva Ermanno Gorrieri e Pietro Scoppola come punti di riferimento costante, mentre io ne fui nominato segretario organizzativo nazionale.

Franco Marini, dopo aver compreso che la spaccatura dei cattolici era inevitabile, anche per l’aggressività dei settori più conservatori e di destra della DC, mantenne una linea quasi di silenzio, partecipando poco e niente alla campagna referendaria nella quale ampi settori della CISL (Carniti, Macario, Crea, Spandonaro) erano invece impegnati. Il mondo del lavoro era già ampiamente secolarizzato, specie nelle grandi fabbriche del nord. La Lega democratica trovò una sede in un appartamento della Cisl in via Isonzo e Luigi Macario, segretario generale, mi riceveva riservatamente ogni mese per darmi un piccolo assegno dell’organizzazione con il quale finanziavamo le nostre spese operative. Ricordo che con Gorrieri parlammo della posizione di Marini apprezzandone l’atteggiamento di preoccupazione silenziosa. Io intanto avevo iniziato a lavorare al Censis, abbandonando l’impegno sociale e politico a tempo pieno.

Dal nostro piccolo gruppo, un po’ elitario e visionario, siamo stati osservatori e commentatori pubblici degli anni di piombo, della violenza nelle fabbriche, del tentativo di piccoli gruppi violenti di trascinare le lotte del movimento operaio su un terreno antidemocratico e rivoluzionario. Fummo travolti dall’uccisione di Moro, non comprendendo bene anche il suo estremo sforzo di mediazione dalla prigionia. L’ideologia feroce della “guerra fredda” avvelenava un po’ anche le nostre menti.

Marini e tanti dirigenti cislini presidiavano le fabbriche e i luoghi di lavoro ponendo il sindacato dei lavoratori come baluardo, come scudo per la difesa della democrazia. Franco difese pubblicamente a Roma anche la libera espressione all’Università la Sapienza dei gruppi di cattolici popolari che si riferivano a Comunione e liberazione. Lui non aderiva certo a queste esperienze, ma aveva una straordinaria sensibilità democratica che lo portava a patrocinare il diritto di libera espressione e di partecipazione di gruppi giovanili cattolici, in larga parte di fuori sede, ai quali i movimenti studenteschi di estrema sinistra volevano negare anche il diritto stesso di iniziativa. In quegli anni fece la stessa cosa anche per i radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino che nutrivano per lui un rispetto straordinario. Questa lezione fu per me davvero assai incisiva. 

Il 3 maggio del 1983 Franco Marini, che per caso chiacchierava con un amico in via Po di fronte alla sede della Cisl, sentite le grida di aiuto dei passanti, fu il primo ad accorrere nella vicinissima via Livenza dove trovò per terra Gino Giugni, suo amico, appena gambizzato dal terrorismo estremista di sinistra. Come ricordò poi lo stesso Giugni lo prese tra le braccia per rianimarlo e attese l’arrivo dell’ambulanza. Giugni, d’accordo con Ezio Tarantelli, era tra i “professori” vicini alla Cisl che sostenevano la necessità di bloccare l’automatismo della scala mobile. Arrivò così nel febbraio del 1984 l’accordo di san Valentino al quale anche Marini, a fianco di Carniti, collaborò incisivamente per la definizione e soprattutto per l’approvazione nei luoghi di lavoro e per respingere il successivo referendum abrogativo voluto dal partito comunista e dalla Cgil.

Alla fine degli anni Ottanta Francesco Cossiga in una dichiarazione pubblica rese onore al coraggio di Marini che in un comizio a Torino in quegli anni, era sceso dal palco per avvicinarsi ad un gruppetto di contestatori che lanciavano contro di lui pesanti bulloni con la fionda. Nel 1996, quando Franco divenne segretario politico del Partito Popolare italiano, ricordo che Cossiga lo accusò di scarso coraggio perché a suo parere stava lavorando per una coalizione di centro-sinistra, piuttosto che per una rifondazione centrista. Marini mi chiese la cortesia di rintracciare quell’intervista di Cossiga e la inviò all’ex presidente con un biglietto a mano nel quale diceva solo “il mio coraggio è immutato!”.

Un’altra occasione importante del mio confronto con Marini fu l’Assemblea degli esterni che la Democrazia Cristiana organizzò alla fine del 1981, per cercare una ricomposizione con i tanti fermenti del retroterra cattolico e sociale. Personalmente ero assai scettico su questo tentativo, molto strumentale e poco sincero da parte dei capi democristiani. Non mi impegnai per partecipare ma ricordo l’orgoglio politico positivo con il quale Marini partecipò sostenendo le ragioni della necessaria maggior apertura e del rinnovamento della Democrazia cristiana, non limitandosi a qualche pur pregevole apporto intellettuale, ma evidenziando la necessità di aprirsi a quelle forze cattolico-popolari che attiravano giovani e lavoratori. Pietro Scoppola volle generosamente essere protagonista attivo di quello sforzo, convinto com’era che il rinnovamento dovesse maturare all’interno del partito. Fu tuttavia deluso dei modesti risultati conseguiti, anche se il suo impegno convinse il partito a farlo divenire senatore nel 1983.

Quando nel marzo del 2008 Marini ancora Presidente del Senato mi chiese di organizzare un evento in ricordo di Pietro Scoppola scomparso nei mesi precedenti, quella fu l’occasione nella quale Franco volle ricordare la sua dialettica con Scoppola proprio a partire da quell’Assemblea degli esterni del 1981. Marini aveva stima intellettuale e morale di Scoppola, ma ne vedeva i limiti politici della sua azione pur apprezzando l’onestà della sua posizione. Così volle sinceramente ricordare quella competizione: “Ora nei giorni di quel congresso (l’Assemblea appunto), mi trovavo in Cile perché in quel periodo i sindacati italiani (non solo la Cisl, ma anche la Cgil e la Uil) pericolosamente aiutavano gli oppositori di Pinochet, ed in particolare i sindacati cileni che non avevano vita facile: Mentre mi trovavo in Cile arrivò una telefonata di notte, probabilmente di un esponente della Cisl. Chiesi: <Avete finito?>. Mi rispose: <Si>. Naturalmente domandai: <Com’è andata?>, perché c’era molta vivacità in quel congresso. Lui mi disse: <E’ stato eletto per primo il professor Del Noce>, che sapete benissimo chi è. Io lo interruppi e dissi: <No, questo non mi interessa. Tra me e Scoppola come è andata?>. Eravamo secondi e terzi fra gli esterni eletti a questo congresso (immeritatamente, il secondo ero io). Dissi:<Allora è andata bene>, perché c’era questa dialettica”.

Nel 1991 quasi improvvisamente Marini diviene Ministro del Lavoro nel governo Andreotti. Sostituiva il Ministro Carlo Donat Cattin da poco deceduto. Franco mi fece chiamare al Ministero in via Flavia, dove con lui e con Maurizio Polverari che lo aiutava da vicino, più che parlare di politiche del lavoro preparammo quella che fu poi la battaglia politica di Roma. Io avevo una qualche esperienza, sia perché conoscevo e frequentavo da anni molte borgate sperdute, sia perché nel 1985 avevo dato una mano a Nicola Signorello per la ripresa del Comune di Roma dopo 10 anni di una buona gestione del partito comunista, però ormai esaurita. Marini sapeva che nel 1992 ci sarebbero state le elezioni politiche e che avrebbe dovuto candidarsi alla Camera dei Deputati e misurarsi con il voto di preferenza contro personaggi davvero potenti e sostenuti da un esteso e radicato voto clientelare nelle periferie della metropoli. Franco non poteva solo essere eletto, doveva arrivare primo per affermare una idea diversa del partito democratico-cristiano, fondata sulla partecipazione consapevole dei lavoratori e delle loro famiglie e di quel cattolicesimo sociale e democratico che non era tentato da fughe elitarie.

Marini arrivò primo degli eletti superando anche Vittorio Sbardella che disponeva di mezzi finanziari ingenti e raccoglieva le cospicue clientele di Petrucci e di larga parte del mondo andreottiano romano e laziale. La battaglia fu davvero senza esclusione di colpi, compreso l’estremo tentativo degli sbardelliani, nella notte successiva al voto, di “correggere” il flusso di voti che dal Comune di Roma andava al Tribunale per la certificazione. Io a un cero punto andai a dormire, ma Franco ovviamente rimase in piedi tutta la notta e seppi poi che all’alba si era recato personalmente presso l’ufficio elettorale comunale per presidiare e ammonire che non vi fossero “complici errori”.

Furono gli anni dei Governi Amato e Ciampi. Poche misure drastiche per bloccare l’emorragia dei conti pubblici e per aprire la fase della concertazione con le parti sociali. Una legislatura di soli 2 anni che però fece da spartiacque tra la fine di un’epoca politica e l’inizio di una fase ben diversa. La Democrazia cristiana era al tramonto. La sua classe dirigente di mandarini, dopo 15 anni dalla morte di Moro, non era stata capace di favorire un adeguato ricambio della dirigenza, né aveva avuto la visione politica necessaria per un aggiornamento culturale, per una nuova capacità di rappresentanza della società italiana profondamente mutata.

Franco Marini non si riconobbe mai nelle espressioni di prima e seconda repubblica, tanto care a taluni giornalisti, intellettuali e a politici nella loro onda. Pensava che la repubblica fosse una e che il processo democratico procedeva tra avanzamenti e compromessi nella società italiana. 

Ricordo che Marini, non senza preoccupazione, accettò e accompagnò il passaggio verso il Partito popolare. Chiese di aver l’incarico di segretario nazionale organizzativo in quegli anni, perché ben sapeva che un partito democratico di massa si fonda su di una rete di dirigenti, di gruppi, di sezioni, di circoli, su regole e processi partecipativi reali. Le idee e le proposte politiche, come nei luoghi di lavoro, devono essere presentate, discusse, votate e approvate, determinando così una reale forza organizzata di massa consapevole, che va a votare con la propria testa e le proprie gambe, e non perché deve ringraziare qualcuno per un favore o perché tema di essere minacciata nei propri interessi particulari.

Nel 1994 mi ero riavvicinato alla politica militante. Romano Forleo, era stato nominato commissario della Democrazia cristiana a Roma, mi chiamò per affidarmi la responsabilità di riprendere i contatti con gli ambienti sociali e con i mondi giovanili. Io posi una sola condizione: quella di fare una seria battaglia per disinquinare il tesseramento della DC romana. Forleo mi appoggiava e io mi recai agli uffici di piazza del Gesù, alla segreteria organizzativa, per richiedere di accedere ai tabulati dei presunti iscritti e promuovere una incisiva verifica. Ricordo quella mattina il comprensibile imbarazzo di Nicodemo Oliverio, allora funzionario del partito, che era d’accordo con me ma non sapeva come muoversi. Arrivò in ufficio Franco Marini che, informato della cosa, venne a salutarmi e disse a Nico di darmi subito tutti i tabulati integrali dei nominativi che risultavano iscritti al partito. Tornai la mattina dopo per trovare in una stanza quasi 3 metri cubi di tabulati. Erano gli elenchi assurdi dei presunti tesserati romani. Tessere per la maggior parte pagate dai capi-corrente con somme enormi di denari acquisiti illecitamente, spesso anche inquinando appalti e forniture pubbliche. Era la fotografia plastica della crisi profonda della Democrazia cristiana a Roma come in tante altre realtà del Paese.

Marini era ben consapevole di questa situazione e quei fatti cementarono ancor di più il nostro rapporto personale di stima reciproca. Gerardo Bianco mi chiamò a partecipare alla fondazione del Partito Popolare, nominandomi responsabile nazionale dei ceti medi che significava soprattutto un impegno verso le categorie sociali. Mi impegnai in tanti piccoli incontri, avvicinandomi sempre di più però all’iniziativa di Franco Marini. Il suo impegno assai intenso fu quello di costruire un partito nuovo, riannodando una rete di quadri sul territorio; ex dirigenti sindacali, associativi, esponenti politici che provenivano anche da esperienze diverse: cattolici, socialisti, liberali, repubblicani. Senza un telaio robusto di rappresentanti radicati il partito popolare non poteva decollare e radicarsi. Purtroppo la politica, come tutte le cose umane, vive anche di gelosie e pregiudizi, di intellettualismi e di soggezioni ideologiche. C’era chi era convinto da altre visioni: una democrazia ormai sganciata dai modelli partitici precedenti e più vicina al modello americano dei comitati elettorali, basata su modelli elettorali maggioritari, sulla governabilità attribuita a minoranze più sagaci e intelligenti.

La storia l’abbiamo vissuta tutti. Chi prese il potere politico alla fine della legislatura dell’Ulivo dimostrò tutta l’incapacità di costruire le mediazioni possibile, quel minimo comune denominatore che poteva portare più unità fra i cattolici impegnati in politica. L’inizio degli anni Duemila segnò Il fallimento progressivo dei tentativi maggioritari fondati su coalizioni obbligate, incollate da meri interessi elettoralistici. Una democrazia senza partiti che si è rapidamente sgretolata nel populismo di massa leghista e 5 Stelle.

Marini si impegnò con enorme generosità nel tenere insieme e rafforzare la Margherita, cercando di dare a questa esperienza una forte componente cattolico liberale e democratica. Il successo elettorale della coalizione tra Margherita e DS nel 2006, ancorché di dimensioni minime, creò le condizioni per una responsabilità istituzionale di Marini. Mi ricordo bene che nell’aprile del 2006 mi chiamò per dirmi che il centro-sinistra puntava sulla sua candidatura per la seconda carica della Repubblica, la presidenza del Senato. Mi fece pure capire che la cosa non sarebbe stata affatto semplice perché nella maggioranza c’erano settori con altri disegni. Mi disse comunque di non interessarmi di nulla. Ci saremmo rivisti a cose fatte. Alla vigilia delle votazioni in Senato, previste nel fine settimana, io così partii per una breve vacanza a Edimburgo. Dopo alcune tornate senza esito nelle quali il centro-destra tentava di far eleggere il già anziano Giulio Andreotti – evidentemente non soddisfatto del grande servizio reso, ma anche non pago dell’enorme potere avuto per 6 decenni e non consapevole degli gli errori accumulati con cinismo – fu eletto Franco Marini.

Pronunciò subito un discorso di grande sensibilità istituzionale, ponendosi subito come Presidente super partes in un Senato dove il centro-sinistra aveva solo 2 voti in più, come Presidente istituzionale per garantire al Governo Prodi l’agibilità politica necessaria nella seconda Camera. Nei giorni successivi ci vedemmo e mi chiese di assumere la direzione del suo gabinetto, lasciando il mio lavoro al Cnel. Mi raccontò anche alcuni piccoli ingegnosi stratagemmi con i quali era stato eletto, malgrado le trappole “amiche”. Si fece di tutto per tenere in piedi la Legislatura e il Governo. Quando però, caduto Prodi, il Presidente della Repubblica incaricò Marini di tentare la formazione di un nuovo governo Franco fu giustamente intransigente. Al termine delle consultazioni il centro-sinistra avrebbe potuto contare su qualche voto in più, disponibile perché c’era in campo Marini. Ma lui disse che non si potevano affrontare i gravi problemi sul tappeto con una coalizione solo rabberciata da pochi transfughi.

La storia successiva è troppo recente. Compreso il tradimento per la mancata elezione al Quirinale, del quale dovrebbero parlare prima quelli che puntarono sull’<intelligenza> politica di Renzi e che offuscarono la mente del segretario politico del partito democratico. Di questa scellerata strategia fece le spese anche Romano Prodi. La rottamazione dei maggiori dirigenti cattolici era così compiuta.

Ricordato questo merita di tornare brevemente all’esperienza del Senato, costellata di alcuni cammei senza precedenti: Marini fu l’unico Presidente nella storia repubblicana a restituire una parte cospicua dei non irrilevanti fondi personali che l’ordinamento gli attribuiva senza controllo. Ricordo l’espressione del segretario generale del Senato quando questo avvenne. Dal momento che detestava la retorica si rifiutò poi di far fare a spese del Senato il suo ritratto da appendere nella galleria dei Presidenti fuori dall’Aula. Visto che il ritratto non poteva comunque mancare chiamò un pittore suo amico e pagò il ritratto a sue spese, chiedendo anche che non venisse appeso fino a quando non avesse lasciato il suo ufficio in Senato (cosa che avvenne nel 2018). I suoi predecessori lo avevano fatto appendere addirittura mentre erano in carica. Inoltre il Presidente Marini promosse una prima concreta riduzione dei fondi per i gruppi e i senatori, e anche dei vitalizi, oltreché delle pensioni dei funzionari. E, soprattutto, fece passare una disposizione che limitava a 2 legislature il diritto degli ex Presidenti ad avere un ufficio in Senato, ben sapendo che questa regola l’avrebbe colpito. Mi disse: “e che problema c’è?”.

Non c’era moralismo in queste posizioni. Non ne era capace. C’era piuttosto una sensibilità politica di fare le riforme possibili, anche piccole e graduali, la ricerca di quel minimo comune denominatore, in questo caso con una opinione pubblica divenuta intollerante con l’inconcludenza della politica. A questo proposito pochi ricordano quando nel 2007 fu l’unica autorità istituzionale a ricevere Beppe Grillo che aveva raccolto decine di migliaia di firme per una nuova legge elettorale. Grillo arrivò in bicicletta portando pacchi di firme. Dal momento che se ne temevano le intemperanze fu fatto entrare tra due lunghissimi cordoni di commessi del Senato che dal portone di ingresso giungevano fino allo studio del Presidente. Marini lo accolse con un ampio sorriso, senza dir nulla, ma Grillo era già intimidito quando entrò. Appena seduti Franco lo scrutava serenamente e Grillo cominciò così a parlare prima scusandosi del pandemonio creato, poi dicendo che lui sentiva l’imperativo di dover fare qualcosa, poi quasi implorando il Presidente per un impegno verso le nuove generazioni che lui sentiva molto intensamente a partire dai propri figli. A quel punto Marini iniziò a parlare dicendo a Grillo che anche lui aveva qualche preoccupazione per il suo unico figlio, che l’aveva spinto a studiare e a impegnarsi nel lavoro, anche all’estero. La cosa finì così, amichevolmente, tra due padri di famiglia che avevano trovato un minimo comune denominatore.

Quante volte negli anni successivi, commentando la soggezione di molti autorevoli dirigenti politici verso i grillini, ne abbiamo constatato la grande inettitudine al dialogo, al confronto, anche allo scontro se necessario, sempre però per costruire qualcosa, per cercare un minimo comune denominatore che consentisse di avanzare un po’. 

La sua presidenza del Senato meriterebbe un saggio politico. E’ tutto agli atti dell’Aula: il suo enorme lavoro per consentire il confronto dialettico tra le due coalizioni e insieme l’attività del governo Prodi. L’intensità dell’impegno istituzionale non gli consentì la libertà che altri presidenti avevano goduto. I suoi viaggi all’estero furono solo 2, secondo una lista che lui stesso aveva compilato. Il primo in Canadà: un tributo alle decine di migliaia di emigrati abruzzesi, alcuni dei quali lui stesso aveva visto partire. Dopo le visite di scambio di esperienze e di confronto con i vertici dello Stato canadese, ricordo a Toronto l’incontro a pranzo con circa 1500 immigrati abruzzesi di prima e seconda generazione. Quando prese la parola per un breve saluto la commozione fu immensa, i più anziani piangevano e i più giovani si spellavano le mani. Tutti, dico tutti, in processione vollero stringergli la mano. Era la prima volta che una così alta autorità italiana, un abruzzese, veniva a visitarli, a riconoscere il loro spirito di sacrificio e il loro profondo amor di patria. 

Il secondo viaggio di Marini fu in Algeria, paese strategico per noi per le sue immense risorse energetiche. Paese dilaniato da conflitti politici ed etnico-religiosi. Malgrado lo stato di salute grave anche il Presidente della Repubblica Bouteflika volle riceverlo. Marini tuttavia fece anche quello che più aveva in mente: una conferenza pubblica nella sede della seconda Camera algerina sui temi della democrazia e dei suoi rapporti stretti con la società civile e l’ispirazione religiosa. Anche in questa situazione Marini seminava germi di dialogo tra le varie posizioni, cercando un terreno basato su di un minimo comune denominatore per uscire da un conflitto sanguinoso e indicare un percorso possibile di crescita democratica. Avrebbe poi voluto andare in Turchia, per motivi simili, anche perché dei rapporti tra la Turchia e l’Europa si era occupato nel suo mandato di parlamentare europeo tra il 1999 e il 2004.

In questo racconto sommario almeno un cenno merita la nascita del partito democratico che Marini sostenne decisamente, pur non condividendo mai l’astratta aspirazione maggioritaria che alcuni dirigenti sostenevano, come se fosse un partito di aristocratici predestinati, preferendo invece la lenta costruzione organizzata del consenso e il radicamento profondo nella società, a partire dagli ideali politici fondativi. Nella Cisl aveva fatto una lunghissima opposizione prima di arrivare ai vertici e rinnovare dalle fondamenta il suo sindacato. A differenza di altri colleghi non temeva certo un percorso lungo ma chiaro.

Nell’ottobre del 2011 Marini, in occasione dell’anniversario della scomparsa di Pietro Scoppola, scrisse un articolo sull’Unità, dove riassumeva le sue opinioni sul partito democratico, in sintonia con lo stesso pensiero politico più recente di Scoppola. Fece sua la riflessione che il professore aveva esposto nel 2006 a Chianciano, in un convegno di ex popolari. “I popolari e la tradizione cattolico democratica – disse allora Scoppola – non possono non essere dentro questo processo. Il Partito democratico non è un’estensione di quel processo di aggregazione parziale che è stata la Margherita, deve essere una cosa nuova e perciò spinge ad un ritorno alle proprie radici. Bisogna insomma trovare o ritrovare i legami con il proprio mondo. Proprio l’ipotesi di uno scioglimento di una soggettività partitica in un nuovo e più ampio soggetto esige un radicamento maggiore nel proprio terreno, nella propria cultura, nel proprio ambiente, nella propria storia”. “Queste considerazioni di Scoppola – aggiungeva Marini – le ho tenute bene a mente. Spesso mi è capitato di trovare nel partito persone che in base al teorema di <scomporre per ricomporre>, ci dicevano di tagliare i ponti con il passato. Ma come si fa a tagliare i ponti con una cultura? Non esiste possibilità in natura. Per giunta, pensandola come Scoppola, sono convinto che quanto più i cattolici vivranno la propria storia tanto più il partito democratico crescerà, estenderà il proprio campo di riferimento e, soprattutto, sarà capace di intercettare gli umori profondi e diffusi del Paese”.  

Ne aveva fatto di strada quel giovane di famiglia numerosa e poverissima, che vide il mare solo a 12 anni, e che fece la scuola sindacale mosso dall’esempio di suo padre operaio e sindacalista nella sua fabbrica. Ebbe i suoi primi incarichi sindacali alla metà degli anni Cinquanta tra le mennulare (le braccianti raccoglitrici di mandorle) in Sicilia, poi a Ivrea nelle fabbriche industriali e poi ancora tra i braccianti del Fucino in Abruzzo. Bruno Storti lo licenziò perché “troppo bravo”. Non accettava i piccoli compromessi della gestione sindacale di allora consumata nel collateralismo politico democristiano. Lo salvò la stima di Giulio Pastore che lo prese con sè al Ministero del Mezzogiorno dove Marini ricominciò a tessere la sua tela arrivando a scalzare Storti e a portare la Cisl al protagonismo autonomo e vitale nella società industriale e terziaria.

Credo che la lezione di Franco Marini sia ancora di straordinaria attualità per quanti volessero far crescere la presenza e il contributo dei popolari e dei cattolici democratici e sociali nel partito democratico davvero esangue e bisognoso come non mai di questo originale apporto. Il tempo presente ha aperto un ombrello politico enorme rappresentato dal governo Draghi, e un cielo infinito di spazio ispirato da papa Francesco. L’ultima volta che parlammo mi disse che se avesse avuto quindici anni di meno non avrebbe avuto dubbi nel gettarsi nell’impresa.

 

*Già Capo di Gabinetto del Presidente Marini al Senato e amico da sempre

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