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Non se, ma come ridistribuire la ricchezza

Se i ricchi continueranno ad essere sempre più ricchi, il mondo diventerà sempre meno giusto. Se i ricchi continueranno ad avere un’egemonia culturale sugli altri ceti, la rabbia (spesso impotente) continuerà a crescere. E se la politica non saprà contenere l’una e l’altra cosa, a prevalere sarà la demagogia, il populismo e la xenofobia.  Queste lapidarie conclusioni sono contenute in dozzine di studi, di ricerche, di inchieste. Ma soprattutto in sempre crescenti fenomeni di scomposizione sociale e radicalizzazioni politiche. La vicenda Tramp le riassume tutte.

Non a caso, la questione della ridistribuzione della ricchezza sta diventando cruciale. Sia a livello mondiale che nazionale. Cresce la consapevolezza, sia pure in un mare di tentativi per ridimensionarla. Si nega che esista una urgenza clima, si rilancia il protezionismo, si propongono ovunque muri contro le migrazioni. Proposte destinate a non dare un nuovo equilibrio a questo pianeta, ma buone per evitare di discutere di come realizzare una maggiore uguaglianza tra le genti.

Tra i più avveduti, invece, non si discute più “se” è da porre all’ordine del giorno    la questione, ma l’accento è posto sul “come”. E non ci sono soluzioni facili, da costruire a tavolino, da scodellare facilmente dall’alto sulle persone. Ma almeno il dibattito è aperto, quasi tutte le discipline scientifiche sono coinvolte, i confronti si fanno più serrati. Tutto ciò è propedeutico alla possibilità che la politica sappia essere in grado di trarre sintesi sufficientemente coinvolgenti le persone e con esse costruire prospettive più eque di benessere.

Allo stato della discussione, una vera lotta alle disuguaglianze tra i popoli e le persone implica uno sventagliamento di interventi in più direzioni. Abbiamo raccolto, in questo numero della newsletter, approfondimenti già pubblicati o in via di pubblicazione sui temi prevalenti e che meritano di essere evidenziati.

Il primo riguarda inevitabilmente la dimensione mondiale. Senza l’eliminazione dei paradisi fiscali non c’è politica nazionale che possa riequilibrare i rapporti tra ricchezza e povertà. I capitali dei singoli come delle imprese – dalle più piccole alle  multinazionali – cercheranno comunque i rendimenti più alti, specie se tutelati dall’anonimato. La lista dei Paesi che facilitano queste tendenze è ancora troppo lungo e restio ad autolimitarsi. Come si fece con le bombe cluster, occorre una messa al bando generalizzato di questi paradisi. Il passo è ancora troppo lento e le maglie normative ancora troppo lasche.

La seconda direzione di marcia è a scala europea. Senza una politica fiscale unica, a partire dalle multinazionali, la mobilità dei capitali nei confini europei sarà una variabile dipendente delle politiche concorrenziali degli Stati membri. Una contraddizione forte rispetto alle conclamate esigenze di più coesione europea. Certo, le storie fiscali dei 27 Paesi dell’Unione Europea non si possono cancellare di botto, ma senza mai incominciare si finisce che c’è chi trova conveniente finanche uscire e fare dumping fiscale a tutti (pare che la May voglia tassare al 15% le imprese che si localizzano in Gran Bretagna).

La terza è a livello nazionale. Prima di ogni altra misura (penso alla discussione sulla patrimoniale) bisogna prosciugare il bacino dell’evasione. Troppa Iva non pagata, troppo lavoro nero, troppo stock di non riscosso. Il sistema tollera chi è capace di aggirare le norme che a loro volta, non fosse altro per il lungo percorso del contenzioso, favoriscono la prescrizione del debito. Tra accertato e riscosso, il divario è sempre più scoraggiante. In più, nella percezione delle persone (che spesso coincide con la realtà), l’azione coercitiva viene esercitata in modo pressante e vessante verso i piccoli inadempienti piuttosto che verso i grandi evasori, a partire da quelli malavitosi. Un fisco amico è ancora un traguardo da raggiungere.

In definitiva, la ridistribuzione della ricchezza è un processo più complesso di quello qui descritto. Ma limitatamente a questo, si può dire che non è affatto una passeggiata. Anzi, si deve dire che per realizzarlo, occorre un’alleanza sociale e politica di grande spessore e ancora inesistente, la cui costruzione è fondamentale per far prevalere le ragioni della solidarietà.

 

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