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Il ”meridionalismo dal basso” alla prova

Per parlare di Mezzogiorno, bisogna prenderla da lontano. Più precisamente dal Nord. Ad ottobre ci sarà un referendum consultivo in Lombardia e Veneto per trattenere quante più risorse possibile – alla stregua delle Regioni a statuto autonomo – rispetto a quelle che veneti e lombardi già versano allo Stato. Scelta chiaramente divisiva dei due Governatori leghisti, che provocherà un crescendo di polemiche, in una situazione sociale già di per sé ribollente. Sarà un momento difficilissimo per i partiti, per i soggetti sociali collettivi, per le persone. Anche se tutti sanno che gli effetti pratici di un tale referendum saranno pari a zero.

L’iniziativa non è esplicitamente antimeridionalista, dato che l’avversario indicato è lo Stato centralizzatore. Ma il destinatario finale è sicuramente il popolo meridionale. La parte economicamente più debole dell’Italia, quella più silenziosa, quella più devastata socialmente, quella più esposta al predominio dell’illegalità. Con la crisi, ce lo siamo ripetuto tante volte, sono cresciute le disuguaglianze nella società italiana, ma quella tra Nord e Sud è la più coriacea, non si fa scalfire facilmente, resiste nel tempo e si fa beffa delle buone intenzioni. Saviano lo ha scritto due anni fa a Renzi e vale la pena rileggerlo.

In questo clima sfavorevole, senza tanto clamore, Governo e Parlamento stanno per varare una legge di intervento organico e poliennale per sostenere la crescita economica delle Regioni meridionali. Un ascolto tardivo, direbbe qualcuno.  Un prodotto inadeguato allo sfascio che caratterizza tanta parte del Mezzogiorno, potrebbe obiettare qualche altro. Ma è innegabile che sia una scelta non solo giusta, riparatoria, ma quasi antagonista alle velleità referendarie, in quanto inclusiva e redistributiva.

C’è un però. Potrà avere un effetto riequilibrante nell’immaginario collettivo, nella misura in cui il provvedimento non viene vissuto, soprattutto dai meridionali e dalle loro classi dirigenti, in modo scettico e burocratico. Non che non avessero qualche ragione, sia perché troppi anni di disinteresse non si cancellano facilmente, sia perché l’accumulo delle macerie lasciate dalla crisi non si smaltisce senza fatti concreti.  

Ma a fronte delle spinte “separatiste”, sarebbe una vera novità se dal Mezzogiorno avanzasse una diffusa ed energica capacità di utilizzo di quanto è previsto dal decreto in discussione in Parlamento e messo al riparo dall’ingordigia predatoria degli ambienti malavitosi. In gioco, infatti, è la tenuta della coesione sociale dell’intera nazione. C’è già la questione dell’immigrazione che sta attizzando il fuoco dei distinguo tra territorio e territorio. Se a questo si aggiungesse un serio attacco al solidarismo tra aree ricche e aree povere e quest’ultime non reagissero senza piagnistei ma anzi con azioni di rilancio delle iniziative private e pubbliche, le lacerazioni del tessuto sociale sarebbero certamente vistose e penose.  

Il provvedimento è articolato e selettivo. Certamente i nostalgici della Cassa del Mezzogiorno storceranno il naso; c’è sempre chi preferisce la centralizzazione. Chiunque potrebbe trovare il pelo nell’uovo; e speriamo che non sia Bruxelles. Resta il fatto che, dopo tanti anni di sordità, non si elargisce a pioggia, si forniscono leve perché sia il territorio a fare le scelte più opportune, si favorisce l’autoimprenditorialità, si responsabilizzano i poteri locali e regionali, si cerca di affrontare seriamente la questione della povertà educativa, si prefigurano finalmente intrecci mirati tra opere pubbliche e investimenti privati, si scommette sulla nascita di zone economiche speciali (zen) specie a ridosso dei porti più importanti del Sud, si punta sul capitale umano, anche migliorando le potenzialità delle università meridionali, si sveltiscono le procedure per l’utilizzo delle risorse europee e nazionali.

Il meridionalismo di questo secolo non può rifarsi a quello passato. E’ la realtà che lo dice, come si documenta con i molti interventi di questa newsletter. C’è una rinnovata vitalità dell’imprenditoria meridionale – nella quale spicca l’apporto delle donne, in quasi tutti i settori produttivi – che non solo rimette in moto l’occupazione legale ma disegna un sistema non più dipendente dalla grande impresa, quanto piuttosto dalla dimensione locale, nazionale, europea o finanche globale dei mercati di riferimento. Da qui, la necessità che responsabilità degli attori pubblici locali, impegno dei medi e piccoli imprenditori storici o di nuovo conio, contributo delle rappresentanze dei lavoratori si incontrino e cooperino per dare concretezza ad un nuovo meridionalismo diffuso nelle realtà locali. Sarebbe utile anche per i settentrionali, specie se in buona fede, che credono che soltanto trattenendo risorse nei propri territori, si possono far rendere al meglio.

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