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La crescita del welfare contrattuale va orientata

Il welfare contrattato nella dimensione aziendale ha ormai conquistato un ruolo importante nel panorama delle relazioni industriali attuali. Tanto che ad esso e ad un suo più equilibrato sviluppo Confindustria e Cgil Cisl Uil hanno voluto dedicare un capitolo della recentissima intesa sul modello contrattuale. Si tratta di una innovazione non casuale.

Imprese e lavoratori percepiscono sempre più soluzioni di welfare come maggiormente vantaggiose sia per il miglioramento del clima e della produttività aziendale che per il benessere e la conciliazione tra vita e lavoro a cui sempre più lavoratrici e lavoratori tendono. Non solo: da un paio d’anni le modiche agli artt. 51 e 100 del TUIR e la possibilità, resa stabile nelle leggi di bilancio, di rendere fiscalmente vantaggiosa la traduzione in welfare del valore dei premi di partecipazione e di risultato hanno dato una sostanziale spinta alla diffusione nella contrattazione di soluzioni di welfare sociale e sanitario nei luoghi di lavoro.

Gli stessi dati del Ministero del Lavoro, pubblicati mensilmente, e che in realtà dovrebbero dallo stesso essere meglio approfonditi ed elaborati, raccontano di questa nuova centralità. A gennaio di quest’anno si contavano 8.899 accordi aziendali attivi (ovvero prorogati per il 2018) nei quali sono stati negoziati premi di produttività. Di questi ben 3.645 (ovvero il 41%) hanno previsto la possibilità, sempre su singola scelta del lavoratore, di tradurre parte o tutto il premio in prestazioni di welfare. E’ una percentuale in netta crescita, segno che le parti sociali stanno sempre più imparando a negoziare una materia che richiede competenze, che ci dice anche, se pensiamo al fatto che le soluzioni di welfare sono maggiormente diffuse nelle imprese medie e grandi, come la maggioranza dei lavoratori coperti da contrattazione possa ormai godere di queste misure.

 

Tutto bene allora? Certamente la direzione è quella giusta e molti osservatori sostengono che indietro non si tornerà. Anche se dovessero essere riviste le misure di agevolazione (e in realtà bisognerebbe al contrario assicurare la loro stabilità nel tempo per meglio programmare gli interventi) imprese e lavoratori hanno ormai individuato un terreno di reciproca convenienza, di senso prima che fiscale o contributiva. Portare sui luoghi di lavoro forme di sostegno al reddito soprattutto di carattere sociale, legate ai bisogni delle persone che lavorano, è una operazione che tutti i protagonisti vedono appetibile e che supera le storiche contrapposizioni delle relazioni sindacali italiane.

Ma non vi è dubbio che chi ha a cuore lo sviluppo di un welfare contrattuale ordinato e non episodico, deve guardare dentro questa rapida diffusione e preoccuparsi di dare ordine alla stessa. 

 

Una recente ricerca pubblicata dal Censis come 1° rapporto sul welfare aziendale si è coraggiosamente posta l’obiettivo di analizzare maggiormente in profondità come lo stesso si stia diffondendo e propagando e quali caratteristiche e problematicità si stanno nel contempo evidenziando.

Un primo problema che la ricerca sottolinea riguarda un evidente disallineamento informativo tra i lavoratori interessati rispetto all’offerta di welfare aziendale. La quota di lavoratori che ha conoscenza precisa delle finalità e dei contenuti del welfare aziendale è ancora troppo ridotta (17,9% del totale), mentre il 58,3% degli stessi riconosce di sapere solo a grandi linee le caratteristiche dello stesso. Non piccola (23,6%) risulta essere la componente di lavoratori che non conoscono ancora per nulla l’esistenza del welfare aziendale. 

Ancora più evidenti sono i dati che approfondiscono questo campione, dai quali risulta che ad essere meno informati sul welfare aziendale siano i lavoratori a basso reddito, a bassa istruzione o componenti di famiglie monogenitoriali: esattamente quella fascia di popolazione lavorativa che più avrebbe bisogno di sostegni concreti ricavati da adeguati servizi e prestazioni di welfare integrativo.

Invece, risulta essere interessante la propensione dei lavoratori ad ottenere servizi di welfare in sostituzione di aumenti retributivi: è ben il 58,7% la quota di lavoratori favorevoli in questo senso, anche se questa percentuale sembra soffrire ovviamente delle condizioni di reddito (risulta infatti essere più bassa per i lavoratori con redditi più bassi).

Passando alle prestazioni ritenute di maggiore interesse tra i lavoratori, gli stessi sembrano apprezzare maggiormente nell’ordine le prestazioni sanitarie, la previdenza complementare, buoni pasto e mensa aziendale, sostegni e agevolazioni per il trasporto pubblico; più basso risulta invece essere il gradimento dei lavoratori verso i buoni acquisto o le convenzioni presso strutture commerciali. Il gradimento per asili nido, centri estivi per i figli e rimborso delle spese scolastiche spicca ovviamente nel gradimento dei lavoratori con prole, ma non negli altri. Si tratta tutto sommato di un aspetto positivo, che sembra far apprezzare ai lavoratori le autentiche prestazioni di welfare integrativo rispetto a quelle di pura integrazione al reddito.

 

Insomma i chiari dati di questa ricerca evidenziano luci ed ombre nella diffusione del welfare aziendale che devono accendere l’interesse e la riflessione delle stesse parti sociali. I buchi informativi tra i lavoratori che vengono evidenziati non possono non interrogare il sindacato in primis, ma anche le stesse aziende se vogliono davvero rendere il welfare un servizio diffuso e a disposizione di tutti gli interessati. Non basta fare accordi o accendere un set di prestazioni se non si lavora adeguatamente sull’ analisi dei bisogni delle popolazioni lavorative di riferimento, sul coinvolgimento, sulla diffusione e la prossimità delle informazioni e dell’accesso ai servizi di welfare. E in particolare curarsi, in questo percorso, di chi più avrebbe bisogno.

 

E’ venuto quindi il tempo di una riflessione collettiva e plurale, che deve coinvolgere soprattutto i soggetti che maggiormente credono alla potenzialità e positività di questa soluzione contrattuale. Il welfare aziendale deve crescere ancora, ma ha bisogno di essere meglio orientato, addirittura corretto in alcune possibili storture, sviluppato con maggiore ordine e certamente in rapporto (e non in alternativa) ai servizi di welfare pubblico.

 

Una griglia di questioni che andrebbero approfondite per avere uno sviluppo maggiormente equilibrato del welfare contrattuale potrebbe partire dai seguenti aspetti:

  • il welfare aziendale deve sempre avere natura contrattuale. Le recenti modifiche al TUIR hanno finalmente parificato la natura contrattuale del welfare rispetto a quella unilaterale. Non vi è dubbio tuttavia che solo una logica partecipativa, che coinvolge e responsabilizza azienda e sindacato nel governare un welfare efficace, è quella che può meglio sostenere un welfare duraturo e riconoscibile
  • il welfare in azienda deve essere confezionato sui bisogni specifici dei lavoratori di riferimento. Troppo spesso si ricorre a sempre più numerosi “professionisti del welfare” che preconfezionano pacchetti e piattaforme informatiche “chiavi in mano”. Occorre invece sempre far precedere la definizione del pacchetto di prestazioni da analisi sulle caratteristiche approfondite della popolazione lavorativa, per cogliere bisogni inespressi ma importanti
  • il welfare ha bisogno di reti informative e di supporto ai lavoratori per facilitare l’accesso alle prestazioni. Non bastano servizi professionali, serve informare, con costanza e poter sostenere i lavoratori all’accesso alle prestazioni, affinchè gli stessi possano scegliere consapevolmente e con massimo vantaggio
  • il welfare deve aumentare le connotazioni sociali rispetto alle pure forme di sostegno al reddito, sostitutive al salario tassato. Nel futuro occorrerà una seria riflessione sulle prestazioni da agevolare, aumentando l’attenzione verso quelle che rispondono a bisogni sociali delle persone e delle loro famiglie
  • il welfare contrattuale deve essere integrativo rispetto a quello pubblico. Vanno evitati ideologici derby tra pubblico e privato, spesso alimentati da chi ha paura (per lo più a torto) che la diffusione del welfare contrattuale costituisca un indebolimento o un arretramento del welfare pubblico. La ricetta si chiama integrazione tra pubblico e privato, aumentando il dialogo sul territorio tra gli attori del welfare contrattuale e i soggetti pubblici che organizzano il welfare nel territorio (a partire dalle Regioni che hanno nella sanità e nel sociale circa l’85% della loro spesa complessiva)
  • il welfare in azienda deve essere sempre più inclusivo e capace di arrivare ed essere reso fruibile non solo a chi ha un contratto a tempo indeterminato ma anche ai lavoratori cosiddetti non standard (che oggi costituiscono in media il 15% della forza lavoro con punte del 30% – 40% in alcuni settori). Per superare un insostenibile dualismo di diritti e tutele tra insider e outsider, il welfare accessibile per ogni lavoratore con ogni tipologia di contratto è un obiettivo da realizzare
  • il welfare deve mantenere una chiave mutualistica tra i lavoratori. Il suo futuro non sta solo nella singola possibilità di tradurre pezzi di salario in prestazioni di welfare individuali. Queste non generano quella mutualità indispensabile per generalizzare prestazioni a volte poco ricorrenti ma fortemente protettive ed efficaci. Il welfare va contrattato sempre più in aggiunta, e non solo in alternativa, agli aumenti salariali, proprio per generare un sano mutualismo tra gli stessi
  • il welfare deve permeare le PMI e le microaziende dove sono occupati la maggioranza dei lavoratori italiani. Stante i costi di ingresso e la complessità gestionale si rischia di vedere il welfare contrattuale sviluppato solo nelle aziende medio grandi. Non possiamo permettercelo. Per superare la soglia dimensionale necessaria, al fine di organizzare forme di welfare, la via maestra si chiama bilateralità, ovvero rigenerare lo scopo e le finalità dei tanti enti bilaterali già esistenti nei settori ad alta concentrazione di piccole imprese (edilizia, artigianato, agricoltura, commercio) dando loro una nuova missione in questa direzione

 

Il welfare contrattuale è diventato uno degli elementi di maggiore dinamismo e rilancio della contrattazione collettiva, anche decentrata. In anni di bassa crescita, di inflazione tendenze a zero e alla fine di una crisi che ha continuato a far sentire i propri effetti sui luoghi di lavoro, i contrattualisti hanno trovato nel welfare una valida soluzione per rinnovare  e far crescere la contrattazione. Non è stato poco ma serve di più.

Il welfare contrattuale è chiamato ora ad una prova di crescita e di maturità. Deve saper diffondersi più per la validità dei suoi contenuti che per le convenienze fiscali e di costo. Deve saper intervenire sulle disuguaglianze che attanagliano i luoghi di lavoro e differenziano le persone e non solo erogare generiche prestazioni. Deve saper incontrare bisogni sempre più diversificati da parte dei lavoratori (basti pensare a come poco conosciamo e sappiamo rispondere ai bisogni dei giovani che lavorano).

Tocca alle parti sociali aprire questa discussione e contribuire a far crescere in modo maggiormente valido e ordinato questo mondo. Tocca ai sindacati per primi contribuire con una riflessione e proposte approfondite ed adeguate. Per correggere e migliorare. Per dimostrare che il welfare contrattuale non è un incidente delle relazioni industriali ma un pilastro della impresa partecipativa nella quale il lavoro ha maggiore cittadinanza.

 

*Dipartimento contrattazione Cisl

 

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