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Crescono le diseguaglianze tra le donne, dice Chiara Saraceno

Il divario salariale di genere è una articolazione del più generale indice chiamato global gender gap, monitorato anche dall’Onu che nei goals, gli obiettivi mondiali per il 2030 vorrebbe portarlo a zero, realizzando la parità tra i sessi quanto a condizioni materiali e quindi di accesso ad attività e servizi. E proprio l’anno appena trascorso, il 2017, nell’ultimo rapporto del World economic Forum, ha segnato a livello globale un’inversione di marcia dopo un decennio di lievi miglioramenti.

Le donne, professoressa Saraceno, stanno arretrando dalle più recenti conquiste, incluso la parità di salario a parità di lavoro?

Non sono sicura che si possa parlare di arretramento tout court, vedo più una realtà a macchia di leopardo. L’occupazione femminile, secondo i dati Ocse, resta più concentrata nei lavori precari, a bassa qualifica e quindi poco pagati. Ho però l’impressione che stia soprattutto aumentando una disuguaglianza tra donne. L’arretramento è dovuto al fatto che l’aumento dell’occupazione avviene in un contesto di polarizzazione delle condizioni delle donne, perciò c’è chi si avvicina alla situazione degli uomini mentre il grosso si allontana. Una disuguaglianza che non è solo generazionale ma anche tra le lavoratrici skilled, dell’economia della conoscenza, e quelle a bassa specializzazione, addette a mansioni domestiche, ad esempio. Con il rischio di riprodurre le stesse dinamiche che si vedono tra uomini e donne.

Si indica come problema cardine quello del soffitto di vetro, la carenza di figure femminili guida, la cooptazione solo maschile nei ruolo importanti.

Non è solo il tetto di cristallo, è che si è schiacciate in basso, il percorso verso l’alto è interrotto o deviato, non si fa posto alle donne anche quando sono professionalizzate. Come dice la legge sulle quote nei Cda il problema non è solo il tappo ma come si costruisce il bacino da cui attingere. Perché tuttora spesso alle donne non viene riconosciuta la sufficiente autorevolezza per i ruoli decisionali apicali, anche se hanno curriculum adeguati raramente entrano nella stanza dei bottoni. Sono più facilmente presidenti che Ceo.

Il rapporto dell’Onu dice però che l’Italia è il paese Ue con una differenza salariale di genere più bassa.

È una verità solo apparente. Le statistiche prendono in esame tutti gli uomini e tutte le donne e in questo modo il nostro sembra un paese virtuoso. Ma non è così perché mentre in Danimarca, Svezia o Finlandia non esiste una selezione o autoselezione delle donne che accedono al mondo del lavoro, da noi visto il basso tasso di occupazione femminile le occupate sono prevalentemente quelle più istruite e le più istruite sono quelle che anche quando si fanno una famiglia e fanno figli meno frequentemente escono dal mercato del lavoro. Se si guardasse solo gli uomini e le donne con qualifiche medio alte saremmo in un punto molto meno in alto della classifica europea delle disparità salariali.

Perché le donne italiane non accedono al mercato del lavoro: perché non hanno la formazione giusta, perché si autoescludono dalla competizione o semplicemente perché mancano asili e welfare che consentano loro di allontanarsi da casa?

Nelle generazioni in età lavorativa non c’è più un gap di istruzione come nella mia generazione pre-anni Settanta. In Italia come negli altri Paesi sono più istruite in genere quanto almeno ad anni passati dietro ai banchi ma da noi resta un alto grado di segregazione formativa per cui prevale una scelta nei corsi di laurea meno spendibili nel mercato del lavoro, in discipline umanistiche piuttosto che scientifico-tecnologiche. Quanto al welfare le donne del Nord non vivono nello stesso paese di quelle del Mezzogiorno, dove non solo ci sono meno servizi ma anche il sostegno familiare delle nonne risulta più carente perché a più bassa istruzione e povertà corrisponde meno autosufficienza delle anziane.

E la scelta delle studentesse da cosa è condizionata?

Da modelli di genere che restano molto cristallizzati. Anche nella politica italiana sono pochissime e nel giornalismo appena il 27%. Nella carta stampata ad avere direttori donne credo ci siate rimasti solo voi del manifesto.

*da Il Manifesto 21/01/2018

 

 

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