La scorsa settimana l’Istat ha pubblicato i dati sul mercato del lavoro relativi al mese di dicembre. Il bilancio è tutt altro che positivo. Gli occupati tornano a diminuire (meno 75 mila unità), interrompendo così la lieve ripresa osservata nei mesi di ottobre e novembre (più 60 mila unità). I comunicati mensili vanno commentati con cautela ma – certamente – quello che si può evidenziare è che il mercato del lavoro inizia a risentire della mancata crescita economica. L’Italia ha chiuso il 2019 con una variazione del prodotto interno lordo pressoché nulla (0,2 per cento rispetto al 2018) e inizia l’anno in corso con un acquisito 0,2 se la crescita che si avrebbe se i prossimi trimestri fossero tutti nulli. Altri paesi europei mostrano segnali di rallentamento – la Francia, ad esempio, a causa degli scioperi – ma in media l’ area dell’euro segna una crescita dell’1,3 per cento. Ancora una volta, l’Italia resta fanalino di coda. I motivi alla base di questa deludente performance sono tanti e vengono da lontano. Ma, quel che è sicuro è che le misure messe in atto dal governo Conte 1 non stanno aiutando. A confermarlo sono anche i dati di dicembre. Andiamo con ordine.
Primo, aumentano gli inattivi ossia le persone che smettono di cercare un’occupazione. L’incremento è di 42 mila unità, in particolare tra i 22-34 enni (più 13 mila) e tra i 35-49enni (+-9 mila). Il tasso di inattività raggiunge quota 34,2 per cento, 0,1 in più rispetto a novembre. Meno persone in cerca di lavoro significa meno iscritti ai Centri per l’impiego. Tale risultato va in direzione opposta a quella attesa dal Reddito di Cittadinanza. Secondo l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio, il sussidio avrebbe favorito una ricerca attiva del lavoro. A questo proposito, aveva assicurato che la misura sarebbe stata in grado non solo di abolire la povertà ma anche di “far alzare le persone dal divano”. I dati, invece, mostrano che le persone sul divano tendono ad aumentare nonostante gli oltre sei miliardi di euro già spesi.
Secondo, aumentano i contratti a termine (+17 mila) e diminuiscono quelli permanenti (-75mila), Questo risultato è in contrapposizione con un’altra misura del governo Conte 1: il decreto dignità. Sempre l’allora Ministro del Lavoro aveva promesso che i contratti a tempo indeterminato sarebbero aumentati. Anche in questo caso, i dati raccontano una storia diversa. Rispetto all’inizio del 2018, la percentuale di contratti a termine sul totale dei contratti dipendenti sale da 16,4% a 17,2%, mentre quella di contratti a tempo indeterminato scende da 83,6 a 82,8.
Terzo, non migliora la situazione dei giovani. Il tasso di disoccupazione è fermo al 28,9%, il terzo livello più elevato in Europa dopo la Grecia e la Spagna (che però mostrano una dinamica decrescente). In questo caso, i dati sono in contrapposizione con Quota 100, misura fortemente voluta dall’ex Ministro degli Interni Matteo Salvini. Della famosa staffetta generazionale (posto come obiettivo nel Documento di Economia e Finanza firmato dall’allora Ministro Tria) non vi è traccia. Per quanto oggi possa sembrare bizzarro, un anno fa l’intero governo Conte giallo verde assicurava che per ogni pensionato in uscita ci sarebbero stati tre lavoratori in più: veniva così giustificato un provvedimento profondamente iniquo (avvantaggia poche persone, principalmente uomini che lavorano nella pubblica amministrazione) e costoso (circa sei miliardi l’anno finanziati con maggiore debito).
A conti fatti, nessuna della grandi misure prese dal Conte 1 sta dando i frutti sperati. Eppure il Conte 2 le ha tutte confermate. Da un lato, non c’è molto da stupirsi visto che il premier – Giuseppe Conte – e l’azionista di maggioranza – il Movimento 5 Stelle – sono gli stessi. Dall’altro, però, è lecito interrogarsi sul ruolo al governo delle altre forze politiche e, in particolare, del Partito democratico e di Italia Viva. Che senso ha replica- re scelte fallimentari? E’ vero che alcuni esponenti della maggioranza, a cominciare da quelli del partito di Matteo Renzi, manifestano sovente il proprio disagio rispetto a questi provvedimenti. Tuttavia, manifestare il proprio disagio non può essere una strategia di politica economica.
Per tornare a crescere, il paese ha bisogno di una classe politica disposta a fare scelte impopolari dal punto di vista del consenso politico ma necessarie per il Paese. Ad esempio, si potrebbe cominciare dall’ attuazione di un serio programma di spending review volto a: 1) cancellare definitivamente le clausole di salvaguardia; 2) usare il minor tiraggio di Quota 100 per ridurre il debito; 3) ricomporre la spesa verso comparti che hanno un maggior impatto sul Pil potenziale come quelli della formazione (per giovani e per meno giovani) e della ricerca. A capo del Ministero dell’Economia e della Finanze vi è finalmente un politico che — rispetto ai ministri tecnici e ai Commissari alla spending review del passato — ha potere decisionale: sarebbe un peccato sprecare questa opportunità.
*da Il Foglio,07/02/2020