L’offerta KKR, con l’autorevole eccezione del governo che ha sospeso il giudizio limitandosi a sottolineare il fatto positivo che le nostre aziende siano di interesse per investitori esteri, ha suscitato soprattutto reazioni di forte sospetto se non di manifesta ostilità. Vorrei provare ad aggiungere una prospettiva diversa al dibattito.
KKR è stato definito «nemico» di Telecom perché si presume voglia fare lo «spezzatino» della società, in particolare cedendo la rete fissa. Qualcuno degli oppositori sostiene che la «priverebbe delle competenze tecniche necessarie» e qualcun altro sostiene che una TIM senza rete non sarebbe sostenibile economicamente. Per ciò, in Europa ci sono ancora molti ex monopolisti TLC integrati come per esempio la spagnola Telefonica che hanno investito pesantemente in infrastrutture di fibra ottica e in innovazione che diventavano la loro «mucca da mungere» e permettevano ai migliori di crescere a livello globale. Così Telefonica si espandeva in America Latina e la Spagna diventava il paese europeo con la maggior diffusione di fibra ottica.
Purtroppo da noi Telecom non è riuscita a sfruttare i vantaggi della integrazione. Dopo la privatizzazione del 1997 (con i «nocciolini duri» e con la Fiat), Telecom è diventata preda dei «salotti buoni» del capitalismo familista italiano, che ne hanno conquistato la proprietà con un gigantesco leverage buy out ostile (LBO, comprare l’azienda senza metterci troppo capitale e sfruttando il debito) degno dei migliori fondi come KKR. Piccolo dettaglio: i fondi LBO comprano, indebitandole, aziende che generano liquidità per ripagare il debito come per esempio nel settore alimentare, non nelle telecom di quegli anni che avevano bisogno di enormi investimenti soprattutto nella fibra ottica per la banda larga.
E infatti fuori dal mondo anglosassone, le telecom monopoliste sono state considerate asset strategici e non potevano essere oggetto di scalate ostili. Mentre Telefonica, BT e altri ex monopolisti integrati trasformavano le proprie infrastrutture e i servizi di mercato, Telecom cambiava 10 presidenti e 8 amministratori delegati; i CDA servivano a studiare le mosse dei contendenti e a controllare i conflitti di interesse di azionisti – fornitori e a vendere a pezzi le sue attività internazionali (Francia, Germania, Turchia e Argentina ) .
Gli azionisti sono state le vittime di questo disastro: dopo la privatizzazione, la capitalizzazione di Telecom era il doppio di Telefonica, oggi è meno di un quarto. Ma le altre vittime sono stati tutti gli italiani e le imprese che non hanno potuto contare su una rete a banda larga all’altezza della economia della conoscenza del nuovo secolo. Perciò lo Stato italiano alla fine creava Open Fiber tramite ENEL e CDP che alla fine si è dimostrata un ottimo affare, visto che oggi vale qualche miliardo di più di ciò che è costata, confermando una volta di più come da noi il capitalismo di Stato sia stato migliore di quello dei «salotti». Risultato: l’Italia è l’unico Paese europeo con due reti nazionali e da anni si assiste al teatrino delle trattative sulla «rete unica».
Mentre tutto ciò avveniva, l’ attività dei servizi di Telecom (commerciale, servizio ecc.), sussidiata dalla infrastruttura (anche se con la tecnologia vecchia del rame) perché monopolista, non è certo considerata oggi una azienda mancando dell’incentivo all’efficienza della gestione operativa e all’innovazione. Non sorprende che Telecom se la voglia tenere ben stretta anche perché il regolatore italiano l’ha penalizzata nei servizi non in monopolio come il mobile più che nel resto dell’Europa spingendo le tariffe e i margini ai livelli più bassi d’Europa.
Arriviamo a oggi. Anche all’estero molti ex monopolisti si pongono la domanda se l’integrazione conviene ancora visti i grandi investimenti richiesti per stare dietro alle varie Facebook, Google, Amazon , Netflix che hanno i ricavi mentre le Telecom hanno solo i costi. TIM ha però in più il problema del macigno del debito che non le consente di investire in fibra ottica con la velocità richiesta e con un concorrente nazionale come Open Fiber. Inoltre si parla sempre di quanta fibra si posa a e mai di quanto viene adottata: da noi meno che negli altri paesi perché ci sono troppe piccole aziende e troppo piccole.
Così che oggi le alternative per Telecom/Tim sono essenzialmente due. La prima è quella di cedere la rete per creare la «rete unica» sfruttando le sinergie con Open Fiber per ottenere il massimo dalla cessione per ridurre il proprio debito. E poi avviare una trasformazione del business dei servizi di mercato, riducendo i costi, investendo nella innovazione digitale, accelerata dal post-Covid. È quello che intende fare KKR? Sarebbe un investitore che aggiunge valore o si comporterà come gli investitori da salotto che hanno agito da veri «fondi avvoltoi»? Chi scrive non lo sa e si augura che su questo gli attuali azionisti e il CDA indaghino prima di decidere se approvare o rifiutare la proposta e non su ideologie sulla «integrazione infrastruttura- servizi» oggi sempre meno valide.
Se invece si opporranno e TIM continuerà come nel recente passato, il rischio di trovarci con una nuova Alitalia nei prossimi anni è molto verosimile.
*da Corriere della sera,07/12/2021
**saggista, consulente finanziario