A Pechino nel 1983 un diplomatico cinese, navigato mandarino, disse alla delegazione della Banca d’Italia guidata dal Governatore Ciampi che, grazie alla storia, la Cina comunista aveva potuto evitare gli errori del passato, inventandone sempre di nuovi…
Se la storia almeno in tal senso conta, può essere giustificato porre il problema attuale dell’impresa italiana movendo dalla vicenda dell’IRI fra il 1933 e il 2002. La vicenda è stata ristudiata da una cinquantina di ricercatori, coordinati da Luciano Cafagna, Franco Amatori, Valerio Castronovo, Pierluigi Ciocca, Franco Russolillo nel quadro di un progetto di ricerca promosso dalla Fondazione IRI, poi da Fintecna.
I risultati dell’indagine sono stati pubblicati dall’editore Laterza in una “Storia dell’IRI” articolata su cinque volumi analitici curati da Castronovo, Amatori, Francesco Silva, Roberto Artoni, Russolillo, completati da un volume di sintesi dovuto a Pierluigi Ciocca “L’IRI nella economia italiana” – su cui è basato il presente scritto e a cui si rinvia per ulteriori elementi.
Nel gennaio del 1933 l’economia italiana era sull’orlo del baratro: grandi imprese abbandonate dai capitalisti; grandi banche insolventi; Banca d’Italia in dissesto. Era a rischio lo stesso regime. Mussolini ebbe la lucidità politica di capirlo e di affidarsi all’antico nemico socialista e antifascista, Beneduce, il tecnico migliore. Con l’IRI e con un impegno dello Stato superiore al 10 per cento del Pil Beneduce, assistito da Menichella, risolvette il problema. Il crollo fu evitato. La matrice della crisi era industriale. Le banche – la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano, il Banco di Roma – e la Banca d’Italia vi furono trascinate dalla loro esposizione verso le grandi imprese manifatturiere e terziarie insolventi. Ma con la legge bancaria del 1936, artefice Menichella, si diedero assetti stabili a un sistema finanziario sino ad allora molto fragile.
Sulle “braccia dello Stato” fascista – che non aveva intenzioni interventiste – restò tuttavia un quinto del capitale nominale delle società per azioni. Il Duce era ben propenso a ricedere le posizioni di controllo, ma pochi privati si fecero avanti con danaro liquido investibile a prezzi di mercato.
L’IRI sopravvisse a stento fra il settembre del 1943, con l’Italia spaccata, e il febbraio del 1948, la data del nuovo statuto. A Salò, nel 1944, Alberto Asquini e Vincenzo Tecchio salvarono l’Istituto dal radicalismo repubblichino. A Roma, sempre nel 1944, Menichella e il capitano Kamarck, giovane economista non ortodosso, lo salvarono dalla Commissione di controllo alleata. Alla Costituente, nel 1946, lo salvò la realistica risposta data da Angelo Costa al quesito postogli da Armando Cammarano per la Sottocommissione Industria: “Noi oggi non possiamo immaginare un’industria privata che sia in grado di prendere per es. un’Ansaldo”. Nel luglio del 1947 De Gasperi – che aveva appreso nozioni di economia da Sergio Paronetto, cervello di Via Versilia – pose fine a un confuso dibattito: “Si vuol far credere che noi – governo reazionario – vogliamo smobilitare l’IRI…Bisogna evitare questa sensazione…”. L’IRI ebbe così il suo statuto nell’Italia repubblicana.
Nell’intero arco della propria esistenza l’IRI dovette sostituirsi ai privati nel produrre beni e servizi “base” – nel senso di Sraffa – che i privati si erano dimostrati non in grado di produrre. Quella dell’IRI – al pari di quella della Mediobanca, “badante”, anche se non sostituto, dei gruppi privati – è quindi al fondo la storia della incapacità dei maggiori capitalisti italiani di stare sui mercati anche facendo a meno dello Stato e delle banche.
Dal dopoguerra gli investimenti dell’IRI si moltiplicarono e gli smobilizzi azionari scemarono fino ad annullarsi negli anni Settanta. Ancora nel drammatico 1992 i privati disattesero la proposta di rilevare le due megaholding che il ministro Guarino aveva immaginato per cedere in blocco le imprese pubbliche e conservare al Paese una industria competitiva anche perché imperniata su grandi imprese. Seguirono le privatizzazioni al dettaglio.
Sempre dal dopoguerra la dimensione dell’IRI si dilatò sino a farne, secondo Franco Amatori, “una conglomerata troppo vasta”. Nei primi anni Ottanta il gruppo annoverava quasi 600mila dipendenti, partecipazioni in un migliaio di società, il 3,6 per cento del valore aggiunto del Paese, la capacità di attivare il 5 per cento del Pil, una presenza manifatturiera nel Mezzogiorno di 75mila addetti, decisiva per l’uscita del Meridione dal sottosviluppo.
La prestazione del gruppo in termini di produttività fu accettabile negli anni Trenta, mediocre nella guerra mondiale, discreta nella ricostruzione, eccellente nel “miracolo economico”, cattiva negli anni Settanta, buona negli anni Ottanta, pessima nei primi anni Novanta. Si conferma la valutazione di Herbert Simon, secondo cui l’efficienza non è preclusa all’impresa pubblica, così come l’inefficienza non è preclusa né all’impresa pubblica né all’impresa privata.
Soprattutto, anche nei momenti difficili il gruppo diffuse esternalità preziose per l’intero sistema produttivo. L’IRI addestrava migliaia di dirigenti e dipendenti l’anno, non solo del gruppo; faceva cultura; nel 1964 il presidente Petrilli impegnò uno dei suoi manager migliori, Gaetano Cortesi, sul fronte dell’innovazione nel raccordo con il CNR. L’IRI arrivò, nel 1986, a effettuare, da solo, il 15 per cento degli investimenti italiani in R&D.
Perché l’IRI decadde? Al pari di altre grandi imprese, italiane e straniere, l’IRI incappò in acute difficoltà negli anni Settanta. Concorsero almeno tre fattori: la natura “da sproporzioni” della crisi mondiale; gli errori di gigantismo del gruppo; la miopia della politica.
Gli shocks salariale, petrolifero, di finanza pubblica avevano stravolto i prezzi relativi. La necessaria riallocazione di risorse era specialmente ardua per un colosso a intensità di capitale già alta quale era l’IRI. I vertici del gruppo insistettero sui programmi di espansione polisettoriale concepiti prima della crisi, a cominciare dalla siderurgia con il raddoppio ulteriore di Taranto, mentre scioperi, conflittualità, terrorismo rendevano i rapporti di lavoro asperrimi nelle fabbriche. La classe politica fece dell’Istituto un uso improprio. Si andò ben oltre il ruolo che all’impresa pubblica si voleva assegnare in una “economia mista”, la categoria che gli stessi economisti dell’IRI – Paronetto, Saraceno, la Svimez – avevano contribuito a definire.
Il governo e i partiti di maggioranza videro nell’IRI, non più un autonomo, imprenditoriale meccanismo produttivo, ma una sorta di strumento utile all’ideale della programmazione ma anche a contingenti fini sociali e di gestione del consenso. Nel 1969-1979 l’IRI dovette farsi carico di 24mila dipendenti di aziende dissestate. La nozione degli “oneri impropri” – mai pienamente compensati dalle pubbliche finanze – costituì uno dei varchi attraverso cui s’imposero all’IRI investimenti e posti di lavoro in perdita.
Gli squilibri accumulati negli anni Settanta, denunciati da Pietro Sette, vennero nel decennio successivo parzialmente ricomposti dalla gestione Prodi-Zurzolo. Franco Nobili riaffermò la ragion d’essere dell’IRI – la supplenza dei privati – ma non attuò le ristrutturazioni né ricevette dallo Stato i fondi promessi. Le perdite e l’indebitamento esplosero. La classe politica era stretta fra i vincoli europei, il neo-liberismo di moda, il debito pubblico. Andreatta firmò l’accordo con Van Miert forse anche perché vedeva nella fine delle partecipazioni statali la catarsi della politica, compresa la sua parte politica. Nel 1992 l’Istituto fu trasformato da ente pubblico in società per azioni e prese avvio lo smantellamento del gruppo, come si scelse di non fare per ENI ed ENEL. L’ultimo apporto dell’IRI prima della liquidazione si cifra nei 57 miliardi di euro incassati con la cessione delle sue aziende.
Dal 1992 l’economia italiana ha conosciuto la peggiore performance dal tempo di Cavour. Lo stock di capitale si è eroso. Il progresso tecnico è svanito: la produttività totale dei fattori, dopo essere cresciuta appena dello 0,2 per cento l’anno nel 1996-2007, è addirittura diminuita quasi dell’1 per cento l’anno tra il 2007 e il 2014. Al Sud l’investimento si è dimezzato, prospettando una desertificazione industriale dell’area. La spesa privata in R&D ristagna sul magro mezzo punto del Pil. Nemmeno nella manifattura l’investimento lordo ha generato innovazione. La produttività manifatturiera, un quarto di secolo fa sui picchi mondiali, è oggi del 20 per cento inferiore a quella di Germania, Francia, Regno Unito. Dal 2000 il costo del lavoro per unità di prodotto è salito del 40 per cento nell’industria italiana, dello zero per cento nell’industria tedesca. La produttività ha ristagnato anche nei settori in cui l’IRI era stato più presente, come la siderurgia e la meccanica. E’ stato smentito chi aveva pensato che la sostituzione dell’impresa privata all’impresa pubblica desse risultati migliori.
Vi sono economie di scala. Piccolo di rado è bello e il distretto non basta. Nella manifattura, il valore aggiunto per addetto è di 25mila euro l’anno nelle aziende minori, di 45 mila in quelle con 10-50 addetti, di 67 mila in quelle con 50-250 addetti, di 79mila nelle maggiori. Ma, privatizzato e frantumato l’IRI, poche imprese da piccole sono diventate medie e da medie sono diventate grandi. La dimensione dell’azienda manifatturiera italiana media supera a stento i 9 dipendenti, rispetto ai 14 della Francia e i 35 della Germania. Le imprese manifatturiere italiane con oltre 250 addetti impiegano solo un quarto degli occupati totali, contro il 45 e il 53 per cento della Francia e della Germania, rispettivamente. Solo una decina di gruppi industriali italiani hanno più di 15mila addetti. I maggiori producono automobili, pneumatici, cioccolatini, occhialeria, pasta alimentare, abbigliamento unito a rendite autostradali. Anche quando generano profitti tali attività non sono più sulla frontiera dell’innovazione capace di ricadute tecnologiche nell’intero sistema.
Correlazione non vuol dire causalità. Sul declino italiano influisce una molteplicità di forze, che vanno ben oltre lo scadimento e la chiusura della grande impresa pubblica[1]. Il controfattuale di un’economia italiana che avesse conservato l’IRI nella sua migliore versione è analiticamente impossibile, almeno per me.
Nondimeno, lo Stato potrebbe in futuro vedersi di nuovo costretto a una funzione di supplenza della grande impresa privata. Nessuno se lo augura, nessuno lo propone. Osta la condizione delle pubbliche finanze. Mentre nel 1933 lo Stato subentrò in aziende che c’erano, oggi lo Stato dovrebbe creare le grandi imprese che non ci sono. Ma la questione si imporrebbe qualora i privati mancassero di assicurare al Paese una manifattura competitiva perché capace di produttività diffusa. La ripresa ciclica, se c’è, è lenta. La crescita di trend latita. Mancano gli investimenti pubblici, che tonificherebbero sia la domanda sia l’offerta. Gli ultimi tre governi hanno tagliato la spesa per infrastrutture addirittura in termini nominali, di quasi un quarto. La preoccupazione è accentuata dal caso Taranto e da altre emergenze industriali, con circa 40mila posti di lavoro pericolanti sul tavolo del Ministero competente.
Sulla scorta delle luci e delle ombre sperimentate con l’IRI, l’eventuale, rinnovata presenza pubblica nell’industria dovrebbe rispondere a tre requisiti: vocazione al progresso tecnico, dirigenza qualificata, separatezza dalla politica.
Si evitino almeno gli errori del passato, ammoniva il diplomatico cinese…
[1] Per lo schema interpretativo su cui è basato il cap.10 del volume L’IRI nella economia italiana rinvio a P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia, 1796-2005, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
(*) Banchiere ed economista