Il CENSIS ha presentato una propria indagine incentrata sull’assistenza domiciliare svolta dagli infermieri e sostenuta economicamente dai destinatari. E’ avvenuto in occasione del XVII Congresso della Federazione Nazionale dei Collegi Infermieri.
I dati sollecitano una riflessione più generale sui fabbisogni di servizi alla persona. Un fenomeno che si intreccia con la definizione del nuovo welfare territoriale in rapporto a tendenze ormai consolidate di invecchiamento della popolazione, di crescita della non autosufficienza, di trasformazione del nucleo e della dinamica familiare, del lavoro femminile e delle politiche di conciliazione famiglia lavoro, della necessità di riorganizzazione /esternalizzazione dei servizi socioassistenziali e socio sanitari.
Già il CENSIS nel 2013 aveva effettuato un’indagine sui fabbisogni professionali del settore dei servizi alla persona ed alla famiglia nel tentativo di predisporre un modello previsionale, a partire dalle regioni meridionali ma con la prospettiva di estensione all’intero territorio nazionale.La recente indagine, concentrata sull’assistenza domiciliare infermieristica e durata un anno, ha messo in luce aspetti quali: quantità e tipologia dei destinatari dell’assistenza e collocazione geografica; tipo di assistenza erogata; quantità e qualità della spesa; motivi di ricorso all’assistenza; rapporto tra assistenza infermieristica, badantato, caregiver familiari.
Destinatari dell’assistenza.
Gli italiani che nel 2014 hanno usufruito di prestazioni di un infermiere, erogate in forma privata sono 8,7 milioni (il 17,2% dei cittadini maggiorenni).
Questa la casistica: 44,4% di non autosufficienti (1.400.000 persone), 30,7% di malati cronici (2.800.000); 25,7% ultrasettantenni (2.300.000).
Nel Nord-Ovest si registra la quota più alta di persone che ricorrono privatamente a un infermiere (il 25,8% dei residenti adulti), al Nord-Est la percentuale è dell’11,7%, al Centro del 15,4% e al Sud del 14,5%.
Secondo il CENSIS la domanda potenziale di assistenza infermieristica è ancora maggiore, in quanto in Italia sono 9,1 milioni le persone con patologie croniche (di cui 5,6 milioni anziane) e sono 3,1 milioni le persone non autosufficienti (di cui 1,5 milioni con non autosufficienza molto grave).
Tipo di assistenza
Sul totale, 6,9 milioni di assistiti (il 13,7%) hanno chiesto prestazioni una tantum, mentre 2,3 milioni (il 4,5%) hanno avuto bisogno di assistenza continuativa.
Le prestazioni prolungate acquistate hanno avuto una durata media di 2 mesi e 20 giorni; tra i non autosufficienti la durata media è stata di 3 mesi e 10 giorni; tra i malati cronici di 2 mesi e 24 giorni. Relativamente all’assistenza prolungata, le prestazioni maggiormente richieste sono state le iniezioni (58,4%), le perfusioni, le infusioni o le flebo (33,1%), l’assistenza in generale (24,5%), le medicazioni e i bendaggi (24,4%) e l’assistenza notturna (22,8%).
Per il 50,9% degli italiani (il 55,4% tra gli anziani, più bisognosi di prestazioni infermieristiche) esistono prestazioni semplici per cui non è indispensabile il profilo professionale dell’infermiere. Ciò introduce il fenomeno delle prestazioni fornite da persone non appropriate, spesso in situazioni di lavoro non dichiarato. Altre indagini hanno confermato l’estesa presenza di persone immigrate.
Quantità e qualità della spesa
Sulla base dei dati raccolti, in dodici mesi la spesa privata per prestazioni infermieristiche è stata pari a 2,7 miliardi di euro, di cui oltre 2,3 per assistenza prolungata nel tempo e 358 milioni per le prestazioni una tantum.
Il 54% degli italiani ha pagato le prestazioni in nero: il 45% per l’intera cifra e il 9% in parte. Un italiano su due, quindi, sostiene spese non dichiarate e quindi non assoggettate ad alcuna contribuzione.
Il ricorso al lavoro non dichiarato risponderebbe a vantaggi sia dell’assistito sia dell’assistente. Il primo ricorre al pagamento in nero a causa del risparmio di costo e della riduzione della capacità di spesa nella crisi, con conseguente ricerca di prestazioni a prezzi più sostenibili.
Gli infermieri liberi professionisti lavorano in nero a causa degli elevati costi legati all’apertura, alla gestione e al mantenimento di una partita IVA (lo pensa il 40,7%), e perché così possono garantire un risparmio ai clienti e anche un abbattimento di costi per se stessi (40,5%).
Assistenza infermieristica e badantato
Oltre 4,2 milioni di italiani nei 12 mesi precedenti l’intervista del CENSIS si sono rivolti a figure non infermieristiche (badanti, familiari, conoscenti, eccetera) per avere prestazioni di tipo sanitario per varie ragioni: la fiducia nella persona cui si fa ricorso (42%), il costo eccessivo di un infermiere (33,7%), la convinzione che per alcune prestazioni l’infermiere non sia indispensabile (31,5%). La maggioranza si dichiara tutto sommato soddisfatta delle prestazioni avute da non infermieri e giudica “residuali” gli eventuali danni subiti.
Entrando nello specifico delle singole prestazioni emerge che: – per medicazioni e bendaggi, il 41,2% si rivolgerebbe a chi non è infermiere, e cioè il 19,7% a un familiare, il 13,7% a un operatore sociosanitario (Oss) e il 7,8% a una badante. In particolare, tra i non autosufficienti e i malati cronici risultano più elevate le quote di coloro che si rivolgerebbero ad un familiare (rispettivamente, del 34,6% e del 20,7%) e ad una badante (rispettivamente, del 12,5% e del 12,4%); – per le iniezioni il 43,7% si rivolgerebbe a personale non infermieristico, e cioè il 24,2% a un familiare, il 12,8% a un OSS, il 6,3% a una badante; la quota che si rivolgerebbe a un familiare ammonta al 44,9% tra i non autosufficienti, al 26,2% tra i malati cronici e al 27,6% tra gli ultrasettantenni, e quella che si rivolgerebbe ad una badante al 9,7% tra i malati cronici ed al 9,1% tra i non autosufficienti; – per l’assistenza notturna con esigenze sanitarie, il 53,5% della popolazione si rivolgerebbe a chi non è infermiere, e cioè il 26,6% ad una badante, il 13,9% a un OSS e il 13% ad un familiare; salgono le quote che si rivolgerebbero a una badante tra i malati cronici (31,7%), tra i non autosufficienti (31,5%) e tra gli ultrasettantenni (28,9%); – per la misurazione e registrazione di parametri e valori vitali (pressione, temperatura, ecc.), il 72,1% si rivolgerebbe a chi non è infermiere, e cioè il 51,9% a un familiare, il 13,9% alla badante e il 6,3% a un OSS; tra i non autosufficienti e tra gli ultrasettantenni salgono le quote di coloro che si rivolgerebbero ad un familiare (rispettivamente al 71,4% e al 56,7%), mentre tra i malati cronici sale la quota che rivolgerebbe a una badante (17,8%); – per la gestione delle terapie farmacologiche il 77,8% si rivolgerebbe a chi non è infermiere, e cioè il 57,7% a un familiare, il 17% ad una badante ed il 3,1% ad un operatore sociosanitario; sale la quota che si rivolgerebbe a un familiare tra i non autosufficienti (74,9%) e tra gli ultrasettantenni (61,3%), tra i malati cronici sale invece quella che si rivolgerebbe a una badante (22,2%).
Le badanti risultano essere significative nell’assistenza domiciliare anche per i risvolti sanitari. Gestiscono infatti le terapie farmacologiche (88,8%), fanno iniezioni (32,3%), si occupano di eventuali bendaggi e medicamenti (30,4%), intervengono in caso di esigenze sanitarie che di solito richiedono il ricorso a infermieri (20,5%) e gestiscono un catetere (6,2%). Il 51,5% delle persone che impiegano una badante ritengono che la propria sia capace di svolgere prestazioni infermieristiche e il 30,6% la considera in grado di intervenire in caso di emergenze sanitarie.
Interessante è anche l’apporto dei caregiver familiari a conferma del ruolo fondamentale di profili familiari nell’assistenza domiciliare e quindi di una necessità di riconoscimento e valorizzazione del loro ruolo.
Cause del limitato ricorso alle prestazioni di infermieri.
Una riflessione categoriale è stata effettuata sullo spazio potenziale della domanda di assistenza sanitaria domiciliare non coperta da infermieri.
L’indagine del CENSIS fornisce contributi sul versante degli utenti e dei fornitori professionali.
Oltre alla questione dei costi di accesso alle prestazioni professionali, risulta una carenza di offerta sul territorio: il 17,6% dei cittadini ha dichiarato di doversi arrangiare con altri soggetti perché «gli infermieri non possono coprire orari lunghi nelle abitazioni» e il 10,1% perché «non ci sono abbastanza infermieri che vanno a domicilio».
Sul versante dei prestatori le cause indicate sono:
– il blocco delle assunzioni nel pubblico chiude gli sbocchi attesi dagli infermieri, e l’attività libero professionale o autonoma è considerata una seconda scelta, se non addirittura un ripiego, una fase di passaggio verso la vera occupazione da dipendente, possibilmente nel pubblico;
– in attesa di sbocchi migliori, tanti infermieri si collocano in posizione subordinata nell’ambito delle prestazioni infermieristiche di territorio, sviluppando un’attività al nero fondata su reti parentali, relazionali e di vicinato, o accettando collocazioni a basso reddito nelle strutture di intermediazione, dalle cooperative alle agenzie di intermediazione;
– l’esistenza di una domanda consistente di prestazioni infermieristiche e l’assenza di una offerta strutturata dello stesso livello rendono sempre più forti le strutture di intermediazione, che fanno incontrare la domanda con gli infermieri disponibili, incassando una quota consistente del valore del mercato infermieristico, e comprimendo la remunerazione dell’infermiere;
– la ridotta propensione degli infermieri a organizzarsi per il lavoro autonomo o in attività di impresa; questo li pone in posizione di debolezza verso le agenzie (cooperative o imprese) che fanno incontrare la domanda dei cittadini con l’offerta di infermieri. Sono troppo pochi gli infermieri che strutturano la propria attività libero professionale sul territorio creando un proprio portafoglio clienti.
Vengono tracciati, in realtà in un approccio categorialistico, rischi presenti e futuri.
Un primo problema. A fronte della diffusione della domanda di prestazioni infermieristiche, è condizionante il ruolo di forti soggetti – non sempre professionalmente e deontologicamente verificati – che consentono alla domanda di incontrare la propria offerta.
Il secondo problema è legato alla politica tariffaria di scambio delle prestazioni infermieristiche sul territorio. L’attuale situazione avrebbe spinto verso il basso le tariffe delle prestazioni.
Che tuttavia, nel caso di bisogno di assistenza prolungata, rimangono elevate in caso di assistenza infermieristica continua, tagliando fuori quote rilevanti di domanda potenziale, ovvero facilitando il ricorso al nero e sommerso con fenomeni di prestazioni dequalificate.
Il terzo problema è l’approccio culturale degli infermieri che considerano le attività svolte in libera professione e di tipo imprenditoriale come una diminutio, o al massimo come una fase di transizione.
Un quarto problema è quello del ruolo delle agenzie di intermediazione nella loro funzione di facilitazione dell’incontro tra la domanda degli utenti e l’offerta di prestazioni di infermieri. La necessaria attività di intermediazione ovvero di organizzazione in cooperativa sembra essere considerata in modo negativo nell’esposizione dei risultati dell’indagine. Non viene nemmeno ipotizzata la necessità di intermediazione o di intrapresa specializzata.
Commento.
Il settore dei servizi domiciliari alla persona presenta potenzialità notevoli di sviluppo occupazionale non solo per profili professionali limitatamente qualificati ma per un ventaglio ampio di qualifiche. Nel caso proposto dall’indagine, quelle infermieristiche. Occorre a riguardo introdurre un approccio di politiche di sistema in cui collocare l’apporto infermieristico. Le esperienze francesi e belghe indicano, per strade diverse, questa direzione.
Vi è un volume crescente di spesa sostenuta privatisticamente. E’ da evidenziare il concorso di trasferimenti monetari soprattutto verso alcuni destinatari da parte dello stato e degli enti locali. Trasferimento effettuato in modo disordinato e senza un coordinamento e orientamento al circuito virtuoso verso prestazioni rese in trasparenza, con le ricadute positive fiscali e contributive per lo stato e gli stessi enti locali, per gli operatori e per la qualità delle prestazioni agli utenti. In questa direzione possono essere riconvertiti attuali trasferimenti, quali ad esempio le indennità di accompagnamento già in larga parte rivolte ai caregiver, senza inficiare i sottostanti diritti. Un’occasione aggiuntiva a riguardo è quella di incanalare l’ipotesi del reddito minimo d’inserimento. Resta evidente, infatti, che lo sviluppo e qualificazione del settore dei servizi alla persona necessita di misure di abbattimento dei costi di accesso alle prestazioni.
L’impianto normativo e finanziario, compreso il ricorso a forme di voucher incentivato fiscalmente, è necessario ma non sufficiente. Occorre un piano a medio termine comprensivo di sistema di gestione centrale, – integrato tra politiche sociali, sanitarie, lavoristiche, formative e coordinato tra i livelli istituzionali – che, riconvertendo ed incrementando le attuali risorse a disposizione, valorizzi ed orienti l’apporto dei vari attori pubblici e privati, profit e non, che fornisca piattaforme gestionali unificate a livello nazionale, indichi standard di servizio, di costo, di qualificazione degli operatori. L’obiettivo è quello di attivare progressivamente la qualificazione del settore in un approccio di sistema, compreso il monitoraggio dei risultati e la verifica costante degli investimenti.