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La lezione tedesca sui salari

dalla Newsletter n.89 del 29/05/2012

Non è una notizia da prima pagina sui giornali italiani, né per le aperture dei notiziari televisivi. Per questo non sono in molti, salvo quelli che se ne occupano professionalmente, a sapere che i metalmeccanici tedeschi del Baden-Wurttemberg (ma per accordo tra le parti, sarà esteso a tutti i Land) hanno rinnovato il contratto con un aumento salariale immediato del 4,3%. E’ l’aumento più cospicuo dal 1992 e quello più significativo dopo circa dieci anni di moderazione salariale. Sicuramente seguiranno altre intese in altri settori, della stessa consistenza.

Si tratta di un risultato che farebbe strabuzzare gli occhi a qualsiasi metalmeccanico italiano, anche in periodi di congiuntura economica positiva. Anche perché, nel contempo, quel rinnovo prevede che le aziende si impegnano ad assumere a tempo indeterminato gli apprendisti e quei lavoratori interinali che sono stati utilizzati per oltre due anni.

Con questo risultato, i salari tedeschi restano tra i più alti in Europa, compensati da una crescita della produttività che è basata soprattutto sulla specializzazione dei suoi prodotti. Infatti, la retribuzione media per ora lavorata se in Italia è 100, in Germania è 137 (dati OCSE, 2010), sia per diversa dinamica della contrattazione, sia per un minore numero di ore lavorate procapite: 1746 in Italia, contro 1503 in Germania, part time compreso (dati OCSE, ISTAT 2010); un lavoratore tedesco lavora nell’anno ben il 16,4% in meno di un lavoratore italiano. La competitività non è frutto di quello che un tempo si chiamava “olio di gomito”, per sottolineare lo sfruttamento delle persone. E’ la conseguenza di ben altri interventi che vale la pena ricordare.

Innanzitutto, il sistema d’impresa. In Germania, specie dopo l’unificazione tra Ovest ed Est, l’industria manifatturiera fa la parte del leone: 20% del Pil e le tiene testa soltanto il Giappone. Essa resta il fulcro della formazione del reddito del Paese, nonostante lo sviluppo del settore terziario, cresciuto rapidamente come in tutti i Paesi a capitalismo avanzato. Le sue imprese hanno dimensione medio alte. I “konzern” – i grandi gruppi industriali – confermano che un’economia è e resta solida se dispone di pivot che trainano anche chi è piccolo. Quando il 70% del fatturato dell’industria chimica, il 65% di quello automobilistico e il 55% di quello delle macchine elettriche è concentrato nei primi tre “konzern” del Paese, la capacità di concorrenzialità nell’economia globalizzata ha maggiori possibilità di successo.

In secondo luogo, il sistema bancario. Da sempre ha un atteggiamento pro-industry. Il rischio d’impresa non è mai stato una variabile rigidamente dipendente dalle garanzie patrimoniali apportabili per assicurarsi i finanziamenti richiesti. La Bundesbank, a sua volta, ha esercitato anche una funzione di ammortizzatore nei confronti delle situazioni di difficoltà e di insolvenza in cui possono trovarsi le banche per crediti inesigibili, consentendo così la stabilità del ruolo di sostegno alla crescita. Non si tratta di maggiore spregiudicatezza dei banchieri tedeschi, rispetto a quelli italiani. Né si tratta di una visione del rischio diversa da quella nostrana. Il cattivo investimento e i cattivi investitori ci sono anche in Germania. Ma nel complesso, la maggiore integrazione tra imprese e banche, il più costante dialogo tra loro, una migliore trasparenza delle loro reciproche gestioni hanno consentito una più incisiva cooperazione.

Terzo, non certo per minore importanza, la governance sociale. In Germania, dal dopoguerra in avanti, le relazioni tra impresa e lavoratori sono

mediate da una scelta di metodo, quella di discutere di tutto e sempre, prima di far scoppiare un conflitto e da una scelta valoriale, quella di ricercare ogni soluzione per tutelare il lavoratore dal rischio della disoccupazione. Questa stabilità culturale e politica ha sottratto il sistema produttivo tedesco alle oscillazioni delle convenienze occasionali di ciascuna parte sociale. I pilastri di questa stabilità, com’è noto, sono la cogestione nelle aziende con più di 2000 dipendenti e l’esistenza di un sindacato unico, sia come soggetto di rappresentanza che di contrattazione. E questa stabilità la si vede meglio nelle fasi di crisi che in quelle di espansione. Così, capita di sentir dire: “voi forse non capite, ma il sistema industriale tedesco non licenzia nessuno” e a dirlo è stato il Presidente della Mercedes e della Daimler-Benz, Dieter Zetsche ad Abu Dhabi nel 2009 (riportato in E. Berselli, L’economia giusta, G. Einaudi, 2010). Ma quella stabilità consente anche di documentare che nel pieno della crisi, ci sono stati molti contratti in deroga. Infatti, mentre tra il 2004 e il 2007 nel settore metalmeccanico si erano fatti 850 accordi in deroga, tra il 2008 e il 2010 se ne contavano 1788 (dati della Fondazione Hans Bokler); hanno riguardato la riorganizzazione degli orari (flessibilità, riduzioni ma anche allungamenti), ma anche misure sul salario (riduzioni per i principianti, sospensione della tredicesima, rinvii di aumenti salariali, fino a vere e proprie riduzioni salariali).

Tutto ciò ha consentito un traghettamento nella crisi il meno doloroso possibile. Tutto ciò spiega che lì si possono fare cose che altrove sono impensabili. E per venire a noi, la lezione tedesca ci può servire per cambiare veramente registro. Bisogna dare priorità agli investimenti e ai salari. Se i primi dipendono anche dalle scelte europee (gli eurobond), i secondi possono essere sostenuti soltanto da scelte interne. Semmai rovesciando il paradigma: è il sostegno della domanda interna che muove la crescita e non viceversa.

Infatti, la lezione tedesca è inequivocabile. Anche in Italia, senza esagerare, bisogna fare in modo che la gente torni a spendere e questo si può fare in due modi: riducendo la pressione fiscale sui redditi da lavoro e da pensioni o alzando i salari. Siamo alla vigilia dell’apertura delle vertenze per il rinnovo di importanti contratti di categoria, a partire da quello dei metalmeccanici. E’ l’occasione per porre la questione: o meno fisco o più salario. Né l’uno e né l’altro ci porta lontano dalla Germania, ma soprattutto ci avvicina alla Grecia. Questo non può essere consentito e quindi è il momento che il sindacato unitariamente dia un segno di speranza, quello che altri non sanno o non vogliono dare.

 

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