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C’è un futuro per la nostra democrazia?

Le stagioni della democrazia nella storia dell’umanità sono state brevi e non senza limiti. 

La democrazia Ateniese, con il modello della democrazia diretta, che assegnava ad un “elite” minoritaria di cittadini la gestione del potere politico e giudiziario. La cosa funzionò (tranne che per il povero Socrate) fino a quando, con l’espansione della Città Stato, la democrazia si trasformò in oligarchia, per poi dissolversi nell’autoritarismo del Regno Macedone. 

Sprazzi di democrazia si rinnovarono nell’esperienza dei Comuni italiani, dopo l’anno mille, che si dettero istituzioni di autogoverno che presto naufragarono con il passaggio alle Signorie a causa dell’allargamento territoriale dei mercati. 

La democrazia riemerse dalla storia, dopo alcuni secoli, in coincidenza della nascita di un nuovo modello di produzione capitalistica, la cui culla furono alcuni stati nazionali (in primis l’Inghilterra) meglio predisposti ad accogliere tale novità. Si diede così vita ad un processo evolutivo del capitalismo i cui iniziali “spiriti animali”, basati su un feroce sfruttamento, furono progressivamente addomesticati: con il riconoscimento dei diritti economici individuali (in primis la proprietà privata) poi integrati, non senza conflitti,  dai diritti politici ed infine da quelli sociali e civili. Un nuovo intreccio di reciproco sostegno fra istituzioni economiche ed istituzioni politiche all’interno della sovranità degli Stati Nazioni. Le regole furono quelle della democrazia rappresentativa. Un difficile equilibrio fra due istanze contraddittorie: quella della sovranità popolare e quella della rappresentanza delegata, per sua natura elitaria. Equilibrio che è divenuto sempre più fragile perché le tendenze ugualitarie insite nella democrazia si scontrarono con la vistosa disuguaglianza di poteri tra rappresentati e rappresentanti prodotte dai mutamenti intervenuti negli assetti economici e politici.

Negli assetti economici, la deregolazione finanziaria e la internazionalizzazione dei mercati hanno cambiato la natura prevalente del capitalismo: dal capitalismo di produzione al capitalismo finanziario; dal capitalismo del risparmio al capitalismo  del debito. Le vicende legate a tale evoluzione non furono senza conseguenze nel rapporto capitalismo-democrazia. La nuova economia globalizzata ha favorito l’accentramento economico-finanziario e nuove concentrazioni oligopolistiche accentuando lo squilibrio di potere fra capitale e lavoro e mettendo in crisi le istituzioni democratiche, a livello nazionale, destinate a presidiare la corretta allocazione e redistribuzione delle risorse. Inoltre la libertà di mercato iniziò a convivere con governi autoritari (Russia, Cina i più importanti) rompendo quel legame, ritenuto per tanto tempo indissolubile, tra economia di mercato e sistemi politici liberal-democratici. 

Ma anche gli assetti politici uscirono compromessi. A livello di Europa, l’esempio più avanzato sul piano dell’integrazione di paesi ad alta caratura democratica, l’austerità imposta dalle istituzioni comunitarie, dotate di scarsa legittimazione democratica, ed ancora più la guerra del debito fra Paesi aderenti, hanno deluso le aspettative nate dalla costruzione di un assetto democratico, a livello regionale, in grado di generare crescita economica e benessere sociale. 

Nel contempo le prassi democratiche del voto, a livello nazionale, hanno perso efficacia, disallineando le preferenze degli elettori dai programmi dei governi vincolati alle regole definite in sede comunitaria (l’esempio Greco “docet”). 

Anche le istituzioni politiche a dimensione globale (ONU, Banca Mondiale, WTO, ecc.), nate per accordi fra Stati, per tutelare la pace ed uno sviluppo equilibrato, non sono andate oltre il risultato di tamponare gli effetti più negativi della globalizzazione, anziché governarla in funzione degli obiettivi assegnati.

A questo punto dell’analisi è legittimo  porsi alcuni quesiti. 

La democrazia, così come la conosciamo, è destinata a rientrare nei meandri bui della storia per una vocazione suicida alimentata dall’incapacità delle sue istituzioni rappresentative di governare le discontinuità delle strutture economiche e sociali?

Oppure per governare le forze anarchiche della globalizzazione la democrazia del consenso dovrà cedere il passo a forme di democrazia autoritaria, dando corpo a quella tirannia della maggioranza descritta da Tocqueville? 

R. Dahrendorf è esplicito nel parlare di un “Dopo la Democrazia” (Ed. Laterza, 2001) nel senso che la democrazia, così come l’abbiamo vissuta negli ultimi due secoli, è ritenuta incompatibile con i fenomeni della globalizzazione. Incompatibile se non vengono ripensati gli assetti costituzionali con cui la democrazia attualmente funziona, prospettando l’impegno di “lavorare” per una nuova democrazia.

Il suo contributo è quello di distinguere la “democrazia” come partecipazione del popolo al processo democratico, dallo “stato di diritto”, caratterizzato dal primato della legge a tutela dei cittadini, senza distinzioni.

Negli spazi degli Stati nazionali, la prospettiva condivisa anche da N. Bobbio (Il futuro della Democrazia, Il Mulino, 1995) è di integrare gli istituti della democrazia rappresentativa con quelli della democrazia diretta (referendum) nell’obiettivo di allargare la “democrazia dello Stato” alla “democrazia della società”. Aumentare le occasioni di voto dove i cittadini possano decidere sulle scelte di loro interesse (scuole, ospedali ed altro). Prospettiva che deve però fare i conti con la crisi di comunità, con l’individualismo che svuota i rapporti sociali, con l’opposizione che sta nascendo, non solo ai governi in carica, ma all’essere governati. La proposta di una rinnovata partecipazione dal basso troverà risposta?

Negli spazi politici internazionali è difficile immaginare istituzioni tramite le quali il popolo possa esprimere il suo volere. Il percorso indicato da Dahrendorf è quello di una estensione internazionale del diritto. Cassese in una recente pubblicazione (Chi governa il Mondo, Il Mulino, 2013) individua i nuovi regolatori internazionali, nati per accordi tra Stati che, per quanto non democraticamente eletti, definiscono standard globali per gli scambi commerciali, per l’ambiente, per i diritti umani.

Questo processo di globalizzazione del diritto può essere una fase che porterà alla costruzione di un nuovo cosmopolitismo democratico? C’è anche il rischio opposto di una concentrazione di potere in istituzioni totalizzanti al servizio dei poteri più forti. Per non parlare poi dei “rumors” di guerra provenienti da sommovimenti a sfondo religioso (l’Islam) o da nuovi nazionalismi imperialistici di alcune grandi potenze (Russia, Cina) in grado di mettere in crisi le lente procedure democratiche.

Quale sarà lo sbocco non è dato da sapere.

L’alternativa è quella di sempre: il potenziale di libertà, di dignità, di uguaglianza, patrimonio della nostra democrazia occidentale o la riproposizione di un mondo, interpretato da Dostojevsky, in cui sono molte le pecore da tosare e pochi i pastori.

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