Manca un ultimo passaggio, in corso presso le Commissioni parlamentari, per avere definitivamente come legge il Jobs act. Si tratta di validare nelle prossime settimane i decreti delega previsti dalla normativa generale già licenziata dalle Camere. Sarà un’ occasione per fare qualche aggiustamento ulteriore, ma la sostanza non cambierà. Il Ministro Poletti è molto contento (si è brindato al Ministero dopo l’approvazione, nei tempi previsti, da parte del Consiglio dei Ministri). Molto meno i destinatari con, ovviamente, tutte le sfumature del caso.
A parte quelli che la considerano una contro riforma, le delusioni non mancano. Su molti punti la discontinuità con il passato non è netta ( le Agenzie per i controlli ispettivi, per le politiche attive e per la salute e sicurezza nascono con il vizio del cerchiobottismo; il lavoro autonomo e professionale viene sfiorato e anche maldestramente; il lavoro dipendente sconta la persistenza di forme di flessibilità non aliene dalla catalogazione come “cattiva”). Su altri, non si è osato abbastanza, com’era nelle aspettative e anche nelle dichiarazioni iniziali del Governo (la questione dei disabili e quella delle pari opportunità). Infine, va detto che passano per adeguamento alla modernità, alcuni passi indietro nelle tutele individuali (controlli a distanza e demansionamento professionale).
Su tutti questi punti, troneggia il vuoto sulle politiche per la formazione. Ci si attendeva un grande rilancio dell’attività di orientamento sia per i giovani che per gli adulti verso l’educazione e ci si ritrova più o meno a ciò che già esiste. Con la differenza che sia il giovane in cerca di lavoro, sia il licenziato sulla base della nuova normativa, sia chi perde il lavoro e ne deve cercare un altro (la NASPI dura molto meno che la CIGS) si trovano meno tutelati di prima, perché non dispongono di strumenti efficaci e potenziati di politiche attive del lavoro.
Con un argomento non privo di fondamento, si è rinviato alla modifica costituzionale del Titolo V ogni ragionamento su questo versante. Ma resta il fatto che ora e chissà per quanto, l’Agenzia per le politiche attive non ha piena agibilità sul suo braccio armato, i centri per l’impiego, che vanno sotto la giurisdizione delle Regioni, mentre le politiche formative continueranno a svilupparsi ad “arlecchino” a secondo delle sensibilità delle Regioni. Da notare che in Germania, non solo funziona una potente Agenzia nazionale del lavoro (120000 addetti, contro gli 8000 in Italia) ma la formazione professionale è competenza esclusiva dello Stato. Evidentemente i conti tra Stato e Regioni sono stati per l’ennesima volta rinviati.
Ma ci sono anche opportunità che si sono aperte e non possono essere sottovalutate. Innanzitutto, che la riforma ha carattere di sistema e quindi prescinde dalle congiunture economiche. D’altra parte abbiamo sempre detto che l’occupazione non si fa con le norme, ma che queste servono per dare stabilità ad un sistema. Quello del nostro mercato del lavoro ha raggiunto livelli insopportabili di dualità e quindi di caoticità, proprio perché si sono succedute norme prodotte da valutazioni emergenziali o di breve periodo. Il Jobs act ha dalla sua il vantaggio di favorire un riaddensamento occupazionale attorno al contratto di lavoro a tempo indeterminato. I primi dati sull’andamento delle entrate e delle uscite dal mercato del lavoro sembrano confermare questa prospettiva. Svuotare le tante sacche di precarietà non risolve la questione della disoccupazione, ma almeno stabilizza maggiormente che in passato chi un lavoro ce l’ha.
Se, com’è auspicabile, nei prossimi anni si renderà strutturale la riduzione degli oneri previdenziali per i nuovi assunti, si potrà diminuire ulteriormente il ricorso a forme di flessibilità spurie e dare alla dualità del mercato una configurazione fisiologica e non patologica com’è stato finora. La discussione, dunque, si sposterà sulle politiche che si adotteranno sia per il lavoro dipendente che per quello autonomo e professionale.
In secondo luogo, va apprezzato il rilancio del contratto di solidarietà come strumento principale di governo dei processi di ristrutturazione. La sua concreta incentivazione impegnerà le parti sociali a gestire con il consenso l’utilizzo di tutti i lavoratori nelle situazioni di scarsa produzione e ciò rafforzerà la tendenza a farsi carico dell’insieme delle persone. Si interrompe così una prassi consolidata di selezione del personale che, al di là delle buone intenzioni, tendeva a creare figli e figliastri. Per non dire che, anche sull’onda di una pratica diffusa dei contratti di solidarietà difensivi, si potrà discutere, con minore veemenza ideologica, della necessità di ridistribuire il tempo di lavoro in modo strutturale.
Infine, il Jobs act ripropone in positivo il ruolo del sindacato, innanzitutto nei luoghi di lavoro. Questo è decisivo, perché è lì che si dovranno trovare gli “n” equilibri tra crescita della produttività e benessere dei lavoratori, tra ottimizzazione della produzione e livelli occupazionali, tra scelte organizzative e di modernizzazione e consenso della gente. Il rilancio non è scritto come fatto formale. Non c’è nessuno inchino al potere di intermediazione del sindacato, nella legge. Ma prevedendo che l’occupazione confluisca prevalentemente attraverso il contratto a tempo indeterminato, sebbene a tutele crescenti, irrobustisce le basi dell’autorità sindacale, che potrà essere esercitata per l’insieme della popolazione occupata in quel luogo.
Non sono opportunità di poco conto, soprattutto se si tiene presente che è una riforma non perfetta ma anzi alquanto lacunosa. Sono queste potenzialità che, se adeguatamente gestite, potranno consentire quegli aggiustamenti e quei cambiamenti che ancora mancano per renderla apprezzabile appieno.