Contrariamente a quanto si possa immaginare, è di lunga data l’idea che i lavoratori potessano essere non solo diretti fornitori di mestieri più o meno professionalizzati o di saperi più elevati e quindi salariati, ma anche protagonisti degli orientamenti degli investimenti nel nostro Paese attraverso risorse proprie, variamente veicolate. Se ne incominciò a parlare nei primi anni 50 per iniziativa della Cisl. Allora, nonostante i bassi salari e un’occupazione non estesissima, in quella giovane confederazione, l’approccio strategico fu subito quello di far pesare il ruolo dei lavoratori nei luoghi di lavoro ma anche nell’economia. Lo spirito solidaristico, specie per la crescita dell’occupazione, era forte nelle confederazioni sindacali. Ma mentre il “Piano del Lavoro” della Cgil rappresentava una sostanziale richiesta ad altri (imprenditori e governo) di fare politica agricola e industriale di sviluppo, il “risparmio contrattuale” di cislina memoria prefigurava un intervento diretto dei lavoratori nell’arena degli investimenti.
Né l’una , né l’altra opzione fecero molta strada, per l’opposizione di tanti attori politici ed economici e la scarsa unità di quel tempo tra le confederazioni sindacali. La condizione dei lavoratori suggerì di intraprendere la lunga marcia della crescita salariale e delle tutele minime del futuro welfare. La questione si ripropose all’inizio degli anni 80. La crisi occupazionale e inflattiva imponeva un calmieramento della dinamica dei salari. Sempre per iniziativa della Cisl, anche Cgil e Uil condivisero la proposta di accantonare lo 0,5% del salario dei lavoratori in un Fondo per gli investimenti e l’occupazione nel Mezzogiorno. Il Governo se ne convinse, ma non la Confindustria e il Pci. Questa inedita opposizione ebbe la meglio. L’intesa Governo-sindacati non si trasformò in legge. La tematica cadde di nuovo nel dimenticatoio.
Riemerse verso la fine degli anni 80, con la crisi del sistema pensionistico. Al metodo retributivo per calcolare le pensioni sopraggiunse quello contributivo, sia pure in una logica di lenta sostituzione. Ma tutti capirono che la pensione obbligatoria, in prospettiva, sarebbe stata più leggera. Con lungimiranza, i contratti nazionali, a partire da quelli industriali, si arricchirono dell’istituto della previdenza complementare e verso la metà degli anni 90, fecero il loro ingresso nel sistema previdenziale i Fondi pensionistici negoziali. I più avveduti capirono che stava nascendo un nuovo soggetto di accumulazione di risorse dedicato alla tutela della futura integrazione della pensione obbligatoria, ma anche al potenziale orientamento degli investimenti sia finanziari che nell’economia reale. 40 anni dopo le prime proposizioni partecipative, senza farne una ideologia ma sempre spinti da un solido solidarismo, i lavoratori si dotavano di uno strumento di intervento nelle scelte di politica economica.
La storia, però, non fa salti. Lo start up dei Fondi è stato tutto dedicato al proselitismo (non sempre riuscito bene, in modo da convincere una platea più ampia dei circa 2 milioni di iscritti nuovi) e alla formazione di uno stock di capitali investito largamente in titoli di Stato, per due terzi esteri. Ora – dato che la dotazione ha raggiunto i 100 miliardi di euro (sommando quella dei Fondi negoziali a quelle delle Casse previdenziali), che la carenza di liquidità delle imprese e le difficoltà sollevate dalle banche per concedere crediti persistono, che è palpabile il bisogno di agire più in fretta possibile per creare lavoro, specie giovanile e specie in settori ad investimenti pazienti – è diventata quasi una necessità la riapertura del dibattito sull’uso non solo finanziario dei soldi dei Fondi.
Giustamente la discussione ha un passo da montagna. Intanto, il Governo ha fatto una prima mossa con la legge di stabilità del 2014 e il successivo decreto attuativo: ha deciso di incentivare fiscalmente gli investimenti nell’economia reale effettuati dai Fondi e dalle Casse previdenziali. Ma conciliare la tutela delle future pensioni con un uso intelligente e remunerato degli investimenti resta un imperativo ineludibile. Ma non impossibile. A condizione che i soggetti decisori (rappresentanti delle aziende e dei lavoratori) non si impantanino in discussioni infinite circa gli strumenti finanziari attraverso i quali canalizzare i propri interventi. In questi venti anni, la prudenza è stata eccessiva e nello stesso tempo speculativa. Non c’è stata mai una proposta, rilevante politicamente, promossa dalle confederazioni imprenditoriali e sindacali che indirizzasse i membri dei Consigli di Amministrazione di Fondi a scegliere, sempre nel rispetto dei ristretti margini consentiti della legge, di fare investimenti mirati e negoziati in aziende o amministrazioni pubbliche. Nell’estrema prudenza, invece, si è insinuata la ricerca del miglior (o massimo) guadagno. Spesso si sono inseguiti i rendimenti più alti sia dei titoli obbligazionari e così si sono finanziati i debiti pubblici stranieri, sia delle società quotate in Borsa rischiando di sostenere attività eticamente discutibili, come quelle della fabbricazione delle armi.
I lavoratori hanno tutto l’interesse a destinare una quota degli stock di capitali accumulati dai Fondi in investimenti di lungo termine. Sono, per capirsi, soprattutto quelli in infrastrutture materiali ed immateriali, essenziali per migliorare la produttività complessiva del sistema Paese. Ma sono anche quelli che consentono un’occupazione più stabile nel tempo, più decente in termini di tutele e remunerazioni. Ed, infine, sono anche quelli che hanno un ritorno finanziario forse non troppo elevato ma certamente a basso rischio erosivo.
Incamminarsi sul questo itinerario significa costruire una prospettiva di stabilizzazione delle relazioni sindacali. Non è credibile una forte condivisione sulle scelte di investimento e una scarsa legittimazione reciproca nei luoghi di lavoro. Come non è ragionevole avere una visione progressivamente omogenea sul destino produttivo del Paese e un gestione approssimativa e strettamente congiunturale della condizione dei lavoratori. Né appare legittimo che convivano un attento interesse affinchè i Fondi funzionino bene e una pressione sistematica all’indebolimento del welfare state.
Certo, sullo sfondo del futuro dei Fondi e del loro ruolo nell’economia si staglia la questione della qualità del mercato del lavoro. Se prevarrà l’ipotesi sottesa al Jobs Act per una prevalenza strutturale del lavoro a tempo indeterminato, sia pure a tutele crescenti, si potranno raddrizzare le tendenze che già vedono il sistema pensionistico vacillare per la continua diminuzione dei soggetti a stabile contribuzione nel tempo. Come sarà dirimente la propensione a raggiungere livelli occupazionali elevati che riassorbano l’inattività dei giovani. In assenza di queste due condizioni, la discussione sull’insieme del sistema pensionistico si riaprirà pesantemente. I giovani si sentiranno sempre più distanti da questo sistema, lo vivranno come sempre più garantista per gli anziani e i vecchi, si rifugeranno, specie gli avveduti, sempre di più nel sistema assicurativo privato.
Si deve fare di tutto per non consolidare opinioni non solidaristiche.