“ In Italia praticamente tutti i maschi over 65 ricevono l’assegno previdenziale, per l’altro sesso sono otto su dieci” .
L’intera pagina 24 de La Repubblica del 7 gennaio scorso era occupata da un articolo che dava conto di uno studio dei professori Bettio e Betti, illustrato alla Commissione lavoro della Camera.
È ovvio che la domanda che sorge immediata è: com’è potuto accadere? La risposta non è semplice.
Anzitutto perché – come fanno correttamente gli Autori – va precisato il concetto di pensione in ambito Europeo che è quanto di più ambiguo si possa immaginare.
Basta leggere il resoconto stenografico della seduta della Commissione lavoro della Camera (http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni) del 23 novembre 2015 concernente l’Indagine Conoscitiva sull’impatto in termini di genere della normativa previdenziale e sulle disparita esistenti in materia di trattamenti pensionistici tra uomini e donne.
Il prof. Gianni Betti, docente di Statistica economica presso l’Università di Siena, in sede di illustrazione della ricerca realizzata con la prof.ssa Francesca Bettio, ha ritenuto di indicare quattro tipologie di pensioni prese in esame per l’indagine concernente l’Italia e cioè: le pensioni di lavoro (di anzianità e di vecchiaia ), le pensioni di invalidità (assegno di invalidità, rendita per infortuni sul lavoro), le pensioni sociali, le pensioni di reversibilità, l’assegno di accompagnamento, le pensioni di invalidità civile e di guerra, le pensioni integrative private, le pensioni volontarie, le pensioni pagate da Stati stranieri, limitatamente ai soggetti ultrasessantacinquenni.
Se questo criterio ha un senso dal punto di vista statistico-economico, sicuramente non può averlo dal punto di vista normativo e degli indici antidiscriminatori, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte dei diritti umani.
In definitiva, si deve necessariamente tornare alla realtà del mercato del lavoro femminile e più in generale dell’accollo da parte delle famiglie dei costi per l’assistenza e la cura degli anziani e dei minori, con un giudizio decisamente negativo del metodo seguito in Italia di finanziare le famiglie affinchè si accollino tali costi.
La fuga verso il part time è una conseguenza obiettiva del sacrificio in termini lavorativi e pensionistici (vedi la rigorosa applicazione del metodo contributivo) delle lavoratrici necessitate a supplire ai limiti della predetta opzione, con conseguente necessitata diminuzione del tasso di copertura pensionistica.
“Ormai – conclude la prof.ssa Bettio – tra gli studiosi c’è un consenso pressoché pieno sul fatto che non ci sono grandi alternative a investire nelle cosiddette strutture sociali”.
Convenendo con questa conclusione, possiamo evidenziare che soltanto a fronte di una piena realizzazione di tali strutture di sostegno alle famiglie, si può ritenere inevitabile e quindi accettabile la sentenza della Corte di giustizia sull’età pensionabile delle lavoratrici.