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Non prendetevela con la Corte Costituzionale

Fra i tanti scandali ricorrenti in Italia, anzi sulla stampa e sulle TV italiane, riemerge periodicamente quello delle “Pensioni d’oro”.
Questa volta la pietra dello scandalo è rappresentata da due sentenze della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli oneri che sono stati imposti ai trattamenti pensionistici più rilevanti.
Per l’esattezza la Corte si è prima pronunciata sui trattamenti pensionistici dei Magistrati e poi su quelli dei lavoratori dipendenti.

E’ costituzionalmente illegittimo – così il dispositivo della sentenza n. 116 del 2013 – in relazione agli artt. 3 e 53 Cost. l’art. 18 c.22bis del d.l. 6.7.2011 n. 98 e successive modificazioni  il quale, disponendo che, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, i trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, i cui importi complessivamente superino 90.000 euro lordi annui, sono assoggettati ad un contributo di perequazione pari al 5 per cento della parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché pari al 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro e al 15 per cento per la parte eccedente 200.000 euro. Infatti la disposizione censurata, che si configura quale intervento di perequazione avente natura tributaria, presenta identità di ratio rispetto sia all’analoga disposizione già dichiarata illegittima (sent. n. 223 del 2012), sia al contributo di solidarietà (l’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) del 3 per cento sui redditi annui superiori a 300.000 euro, quest’ultimo assunto anche quale tertium comparationis , dato che, al fine di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, il legislatore ha imposto ai soli titolari di trattamenti pensionistici, per la medesima finalità, l’ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura, attraverso una ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi, determinando un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato alla categoria colpita. 

Partiamo dalle motivazioni giuridico-sistematiche.

Il contributo di perequazione con finalità di stabilizzazione finanziaria introdotto dal Governo Monti ha natura fiscale e non contributiva dal momento che integra una decurtazione del trattamento pensionistico con acquisizione al bilancio statale del relativo ammontare.

E quindi si rientra nella solidarietà generale e non nella solidarietà intercategoriale.

Conseguentemente non si spiega tale decurtazione ai danni solo di una categoria di cittadini e cioè i pensionati.

E’ quindi errato affermare che la Corte Costituzionale ha avallato le pensioni d’oro . Ha solo rilevato che il Governo dei Tecnici ha discriminato i contribuenti italiani, prendendosela solo con il reddito da pensione e salvando, sotto questo profilo, gli altri redditi (da patrimonio, da lavoro dipendente o autonomo, da rendita finanziaria ecc). Il che è vietato dalla Costituzione che impone l’obbligazione tributaria in funzione della capacità reddituale complessiva di ogni contribuente.

Di qui il giudizio di irragionevolezza e di arbitrarietà del diverso trattamento riservato alla categoria colpita, “foriero peraltro di un risultato di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un <universale> intervento impositivo”.

Con queste parole la Corte sembra dare anche un contributo costruttivo suggerendo l’opportuno aggiustamento alla normativa censurata.

E allora oportet ut scandala eveniant ?  Sicuramente sì se si riporta il sistema ad equità.

Ma dalle reazioni che si sono registrate al riguardo non sembra sia questo il punto; quanto piuttosto quello di mettere mano ancora una volta sul sistema pensionistico, abrogando retroattivamente la disciplina transitoria della riforma Dini del 1995 che introduceva il sistema contributivo solo per coloro i quali, a quella data, avessero maturato meno di diciotto anni di anzianità contributiva.

Che un intervento del genere possa portare a dei risparmi di spesa lo capisce chiunque, senza che glielo debba spiegare un ordinario di Economia in una prestigiosa università.

Che si realizzi una maggiore equità è tutto da dimostrare.

Stiamo ancora aspettando i risparmi derivanti dall’aumento dell’età pensionabile delle dipendenti pubbliche che il ministro Brunetta aveva promesso di destinare agli asili nido !

Per chi ha la memoria corta è bene ricordare che la disposizione transitoria di cui sopra fu un approdo transattivo fra le Parti sociali e il Governo che consentì di far passare la riforma sacrificando non poche aspettative e suscitando forti resistenze.

Il che tuttavia non consentì interventi di razionalizzazione che si potevano fare e non furono fatti, come l’abolizione della miriade di Enti previdenziali a garanzia dell’”autonomia”(?) delle categorie professionali o di mestiere o dell’omogeneizzazione delle contribuzioni e dei sistemi di rendimento o della piena utilizzazione di tutti i periodi lavorativi maturati e via enumerando.

Basti pensare  che solo pochi mesi fa si è creato (sic!) il cosiddetto Grande INPS disponendo per legge e senza nessuna iniziativa normativa o organizzativa concreta l’incorporazione dell’INPDAP e dell’ENPALS nell’INPS.

Ebbene oggi c’è chi autorevolmente chiede l’abolizione – ora per allora – della norma transitoria dei 18 anni ricalcolando tutte le pensioni erogate in tutto o in parte con il sistema retributivo secondo il sistema contributivo.

Si può fare ? Da un punto di vista economico finanziario niente di più facile.

E da un punto di vista della tutela dei diritti? E’ bene chiederselo, altrimenti poi non si potrà gridare allo scandalo se interviene la Corte costituzionale.

Non è questa la sede per discettare su diritti quesiti o acquisiti, sulla natura del trattamento pensionistico ordinario che la Corte si ostina a considerare retribuzione differita e così via.

E’ certo che i trattamenti pensionistici fanno parte di un Sistema di rilievo costituzionale.

Ed infatti l’importo delle pensioni del regime generale dei lavoratori dipendenti era determinato esclusivamente sulla base dell’importo contributivo variamente rivalutato fino al 1968 allorchè la legge delega n. 488 stabilì che l’ammontare della pensione si determinava in percentuale della retribuzione e dell’anzianità contributiva. 

Successivamente furono molti gli interventi legislativi che furono più o meno attenti sia all’andamento del PIL normalmente crescente sia al tramonto della caratteristica del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e continuativo a favore, quando andava bene, di forme di lavoro a tempo determinato e/o discontinuo.

Il che ha ancor più evidenziato la differenza dei trattamenti con coloro che sono riusciti a godere integralmente del sistema retributivo.

Se quindi il problema è quello di aumentare il tasso di equità del sistema previdenziale, la sua soluzione è sicuramente possibile e giusta, ma anche molto più difficile degli interventi demolitori per fare cassa.

E infatti  occorre convincersi che se si vuole stabilizzare il sistema finanziario occorre far riferimento all’obbligazione tributaria generalizzata  ai sensi dell’art. 53 della Costituzione, occorre cioè scoraggiare l’evasione fiscale.

Non vale ovviamente mascherare questa obbligazione come contributo di solidarietà facilmente conseguibile a carico dei pensionati, anche se il reddito da pensione deve essere tassato come e insieme a tutti gli altri.

Per quanto concerne il sistema pensionistico, per lo meno quello finanziato dalla contribuzione obbligatoria, le diseguaglianze e i privilegi accumulati sono tanti (basti solo pensare alle pensioni baby).

E quindi sarebbe un grande successo individuarli ed eliminarli tutti per il futuro rendendoli omogenei per lo meno sotto i principali parametri, quali ad esempio, l’anzianità pensionabile, il sistema di calcolo, il tasso di sostituzione, la solidarietà intercategoriale, l’unitarietà del Fondo pensioni, ecc. Senza peraltro dimenticare che chi gode oggi di trattamenti pensionistici elevati (comunque acquisiti, basta che siano pensionistici) non ha periodi contributivi discontinui o a tempo parziale né è necessariamente un lavoratore dipendente nel senso tradizionale del termine e che un adeguato tasso di consenso a un tale intervento può passare solo attraverso la garanzia che quanto ricavato da tale opera di razionalizzazione deve restare nell’ambito del sistema pensionistico obbligatorio per migliorarne le prestazioni perequandole, in modo da assicurare a tutti i pensionati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita (art.38 cost.).

Certo, non ci si può nascondere dietro il solito dito ed ignorare l’urgenza di abbattere il debito pubblico, ma il “legislatore” – per usare l’anodina terminologia della Corte Costituzionale – dovrà pure impegnarsi per reperire degli imponibili diversi dai compensi erogati dai sostituti di imposta ai dipendenti o ai pensionati. 

Non sono in grado di calcolarne il gettito, ma quanto frutterebbe un prelievo di pochi centesimi sugli SMS inviati con i cellulari o “twittati” o “postati” e via gergando?

E da un punto di vista esclusivamente equitativo e prescindendo dai trattamenti pensionistici dei membri degli Organi costituzionali per evitare le solite strumentalizzazioni, non si potrebbe cominciare a mettere mano per lo meno ai trattamenti pensionistici dei lavoratori dipendenti da tali Organi ? 

Il gettito lo verifichiamo dopo.

 

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