Lo spazio pubblico urbano, sia esso costruito o verde, è ciò che fa la qualità delle nostre città. Il suo essere sicuro, inclusivo e accessibile per tutte le persone – quale che sia il loro sesso, età, condizione fisica, stato socio-economico, cultura e religione – è ciò che rende la città sostenibile. Questo in nuce il messaggio che ci viene dalla nuova Agenda per lo sviluppo sostenibile (Agenda 2030) delle Nazioni Unite, che dedica alla città uno dei suoi 17 Obiettivi e allo spazio urbano uno dei suoi 169 Target.
Ma che cosa è lo spazio pubblico urbano esattamente? Forse il modo migliore per definirlo è usare la metafora del “vuoto del vaso”. Il taoismo ci invita a guardare il vuoto di un vaso come qualcosa di più della parte interna del vaso. Il vuoto del vaso è ciò che fa essere “vaso” il vaso, ciò che rende funzionale la sua argilla, ossia il suo pieno. E’ un vuoto “pieno” di possibilità di essere riempito da infinite e differenti combinazioni di fiori.
Allo stesso modo, lo spazio urbano non è semplicemente un vuoto tra gli edifici urbani; esso è ciò che dà senso agli edifici che lo delimitano e gli danno forma, è un vuoto “pieno” di infinite possibilità di stare insieme tra le persone che in quegli edifici vivono, lavorano, studiano, si curano, si divertono.
Nel definire il target relativo allo spazio urbano, l’Assemblea delle Nazioni Unite sembra pensare proprio a questo vuoto “pieno” di possibilità. E’ sostenibile lo spazio urbano “capace” di accogliere la più grande varietà possibile di combinazioni differenti di persone, nessuno escluso e in piena sicurezza.
Su questa visione, Jane Jacobs costruisce la nozione di economie di urbanizzazione, dette appunto Jacobs’ economies. Magistrale è la sua analisi dello spazio urbano in “Vita e morte delle grandi città” (1961) che la porta a riconoscere la vera ricchezza – anche economica – di una città nel funzionamento delle sue strade, dei suoi marciapiedi, dei suoi parchi urbani. La chiave di volta del suo ragionamento è la diversità: tanto più diverse saranno le persone che frequentano una data strada, tanto più grandi saranno le possibilità di incontro, scambio, ibridazione di idee e culture e, quindi, le probabilità che si generi innovazione.
Detto questo, non si può negare che lo spazio urbano abbia anche una sua fisicità, spesso anche molto complessa poiché non riguarda solo la sua pavimentazione e i suoi arredi ma coinvolge le reti che percorrono il suo sottosuolo (acqua, fognature, gas, elettricità, telefonia, …), i flussi di mobilità che attraversano la sua superficie (pedoni, bici, auto, tram, …), e la qualità dell’aria che vi si respira o dei suoni che vi si sentono.
La possibilità di controllare una quantità sufficiente di suolo urbano per realizzare le infrastrutture ed attrezzature che servono al funzionamento della città è condizione essenziale affinché una amministrazione locale sia in grado di garantire il benessere dei suoi cittadini. Qui assumiamo una nozione di benessere a tutto tondo, che comprende le tre dimensioni dello sviluppo umano di Amartya Sen: essere in buona salute, essere istruiti e quindi in grado di fare scelte consapevoli, e avere un reddito.
In questa prospettiva, lo spazio pubblico urbano inteso come insieme di infrastrutture e attrezzature svolge un ruolo essenziale nel fornire alle persone un ambiente “capacitate”, ossia che consente loro di essere e fare ciò che ritengono importante essere e fare. Non esiste capacità di movimento in città senza un’adeguata rete di trasporto urbano, non esiste capacità di fare impresa senza energia e spostamento di merci e persone, non esiste capacità di vivere una vita sana senza acqua, fognature, raccolta dei rifiuti e controllo dell’inquinamento atmosferico. Tutti i beni e i servizi che una città offre restano inutilizzabili e inutilizzati senza un ambiente capacitante che consenta alle persone di trasformarli in reali capacità di essere o di fare.
Va da sé che una quantità adeguata di spazio urbano, dove siano garantite le condizioni di sicurezza, inclusività ed accessibilità definite dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, è anche un efficace strumento di lotta alla povertà urbana. In altri termini, una persona con limitate risorse finanziarie sarà un po’ meno povera se abita in una città che le offre un ambiente capacitante nei termini detti sopra.
La dimensione quantitativa dello spazio urbano è ben presente nelle preoccupazioni delle Nazioni Unite e la sua divisione statistica sta lavorando alacremente per definire degli indicatori utili a garantirne il monitoraggio a scala planetaria. I paesi che hanno sottoscritto l’Agenda 2030 sono tenuti ad impegnarsi affinché le loro città siano dotate di una percentuale adeguata di suoli destinata a spazio urbano, dove per adeguato si intende né troppo poco (quale è ad esempio il 6% presente negli slums delle città del Sud del Mondo) né in misura eccessiva (questo nel timore di un eccessivo consumo di suolo per sole infrastrutture come è il caso dell’oltre 70% di Los Angeles).
Il calcolo della percentuale giusta è assai complesso e controverso. Nonostante ci siano alcuni tentativi di fissare uno standard, la quantità necessaria dipende da una serie di fattori quali la densità di popolazione, la morfologia urbana, la sua organizzazione spaziale e temporale, il modo in cui le persone si muovono e come praticano lo spazio pubblico.
Nel nostro paese, una storica lotta dell’UDI (Unione Donne Italiane) ha portato a sancire per legge degli standard minimi di superficie per abitante insediato con l’obbligo per chi edifica a cedere all’amministrazione locale tali superfici. Tuttavia, si va affermando sempre più la tendenza a monetizzare tali standard, convertendo le superfici da cedere in denaro da pagare. Le conseguenze di tale tendenza sul benessere delle persone restano tutte da esplorare.
In conclusione, possiamo auspicare che l’adesione dell’Italia all’Agenda 2030 imponga al paese una riflessione circa la reale convenienza di trasformare spazio pubblico urbano in denaro e, nel contempo, apra ad una presa di coscienza generalizzata su ciò che fa la bellezza e la ricchezza delle nostre città storiche, che sono prima e soprattutto spazio pubblico urbano e solo poi e in seconda istanza agglomerazioni di edifici. In altri termini, va preso atto che lo spazio pubblico urbano rappresenta una categoria chiave per la costruzione della città sostenibile in quanto capace di mobilitare contemporaneamente le dimensioni della qualità ambientale, della coesione sociale e delle prestazioni economiche di un insediamento umano.
note
1 Vedi https://sustainabledevelopment.un.org/post2015/transformingourworld ed in particolare l’Obiettivo 11 “Make cities and human settlements inclusive, safe, resilient and sustainable.”
2 Target 11.7 “By 2030, provide universal access to safe, inclusive and accessible, green and public spaces, in particular for women and children, older persons and persons with disabilities.”
3 Ad esempio, UN-Habitat raccomanda che almeno il 30% dei suoli urbani sia destinato alla rete stradale, che sia garantita una densità di almeno 18 km di strade per Kmq, e che almeno il 15-20% dei suoli urbani sia destinato a spazi aperti pubblici. http://unhabitat.org/wp-content/uploads/2014/05/5-Principles_web.pdf
4 Decreto interministeriale 02.04.1968, n. 1444
(*) Professore associato presso la Facoltà di Ingegneria della Sapienza di Roma, afferente al Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale