Suddiviso in Titoli e Capi, il documento è tutt’altro che agile e snello: un centinaio di norme dettagliate, un migliaio di commi, una sessantina di cartelle. Elaborato dallo staff di studiosi e operatori giuridici di cui la Cgil si è avvalsa come accadrebbe al dicastero di un governo-ombra, è denominato Statuto dei diritti dei lavoratori col proposito (inespresso, ma) trasparente di evocare suggestive connessioni col celebre antecedente legislativo di quarantasei anni fa. Dal quale però differisce sia nel linguaggio che nei contenuti e nella stessa ispirazione di fondo. Nel linguaggio: in ragione dell’altissima densità di tecnicismi familiari alla pratica forense; nei contenuti: in ragione della loro eterogeneità (dal catalogo di diritti universali all’attuazione degli artt. 39 e 46 della Costituzione, dalla riforma della tipologia contrattuale alla revisione di istituti di diritto sostanziale e processuale più manomessi dal Jobs Act). Nell’ispirazione di fondo: in ragione dell’esistenza di una pluralità di assi portanti e linee-guida.
La valutazione più equilibrata e realistica è che si tratta non tanto di un progetto di legge, anche se il testo ne ha la forma, quanto piuttosto di un programma di attività parlamentare la cui latitudine impegnerebbe un numero imprecisabile di legislature – dato e non concesso che ne maturino le condizioni adatte. In effetti, la credibilità politico-culturale del documento è legata alla verosimiglianza non solo dell’attitudine del potere pubblico d’oggigiorno ad assumere un ruolo attivo pro-labour, ma anche della disponibilità dell’intero mondo del lavoro e della produzione ad accettarlo o subirlo.
In sintesi, può dirsi che, mentre la legge 300 del 1970 era figlia della stagione in cui il sostegno dei sindacati da parte del potere pubblico godeva di larghi consensi nel paese, adesso la maggiore confederazione sindacale sponsorizza la promozione di un processo di giuridificazione di eccezionali dimensioni caratterizzato dal primato dell’intervento di un legislatore che viene autorizzato a sfidare lo stesso sindacato in territori che non solo non ha mai esplorato, come quello della collaborazione alla gestione dell’impresa, ma ha anche evitato accuratamente.
“Tutto sbagliato, tutto da rifare”: è un motto rimasto a lungo nel lessico corrente da quando un popolarissimo personaggio dello sport come Gino Bartali ne aveva fatto la cifra stilistica della sua demolitoria abitudine di commentare le cose. Devono averlo memorizzato anche gli autori del documento al punto di farne la più consona chiave di lettura. Infatti, pur essendo tenuti ad immaginarsi il nuovo diritto del lavoro dopo il Jobs Act, hanno finito per ipotizzare il ritorno alla situazione normativa preesistente, impiegando le proprie energie ideative soprattutto nell’inasprimento (come in materia di licenziamento) dell’apparato sanzionatorio e in genere nella limitazione della discrezionalità nell’amministrazione del rapporto di lavoro. Non a caso né a torto, perché erano necessari cospicui correttivi per giustificare un secco rifiuto dell’idea che sembrava generalmente condivisa: l’idea che, per incapacità di stabilire con la Costituzione la stessa relazione d’intimità che la lingua intrattiene con la grammatica, quello del lavoro fosse destinato a consegnarsi alla storia come un diritto con un grande futuro alle spalle. Così, però, hanno deliberatamente esposto al medesimo rischio una proposta de lege ferenda la cui più indiscutibile novità consiste nel suo posarsi sul crinale che traccia il confine tra sogno e realtà. Infatti, essa offre la rappresentazione più completa che sia stata mai allestita delle performance che sarebbe stato lecito attendersi dal diritto uscito dalla minore età grazie alla costituzione di una Repubblica “fondata sul lavoro”.
Peccato che la costante evolutiva del diritto del lavoro sia la micro-discontinuità. Peccato che la sua formazione, storicamente condizionata dal rapporto di forze tra portatori di interessi antagonistici e di divergenti ideologie, abbia un carattere compromissorio. Peccato che quello del lavoro sia un diritto che, se dal lavoro ha preso il nome, ne ha preso solamente in parte le ragioni e dunque non è del lavoro più di quanto non sia del capitale.
Infatti, è un lusso intellettuale ed uno spreco di acume permettersi di perdere di vista che, parlando di diritto del lavoro, si usa una convenzione lessicale che, per non smentire la sua appartenenza alla figura retorica della metafora, ne occulta l’intrinseca ambiguità. Sono in pochi a sapere che, prima di ogni altro, questa costruzione linguistica sedusse i funzionari ministeriali incaricati dal governo Badoglio di cancellare le tracce lasciate negli ordinamenti scolastici dal corporativismo fascista. E’ bene, invece, che si sappia che l’espressione è entrata nel vocabolario degli italiani per designare una partizione dell’organizzazione didattica del sapere giuridico nelle Università dell’Italia post-corporativa, ma è sprovvista di validità conoscitiva. Infatti, sebbene l’incipit della nostra carta costituzionale avesse testualmente de-mercificato il lavoro nella forma più solenne possibile, la neonata Repubblica ha accettato in eredità la preesistente regolamentazione giuridica del lavoro, sia pure col beneficio d’inventario; sicché il diritto insegnato nelle Università, applicato nelle aule giudiziarie e radicato nella prassi è quello di cui è riconoscibile l’imprinting della giurisprudenza corporativa, peraltro largamente debitrice verso la giurisprudenza probivirale funzionante a cavallo tra l’800 e l’inizio del ‘900. Insomma, quello che abbiamo l’abitudine di chiamare diritto del lavoro non è che una provincia dove le notizie degli eventi che gettano lo scompiglio nella capitale arrivano sempre in ritardo. Stemperati, diluiti e pressoché irriconoscibili.
Si dirà che, fino all’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori del 1970, la cultura giuridica più vicina alla sinistra politica e al movimento sindacale si è prodigata nella bonifica del tessuto normativo per prosciugarne gli umori paternalistico-autoritari ed eliminarne le inclinazioni repressive. Il che è vero. Tuttavia, la tecnica prevalente era quella del restauro conservativo ed è per questo che può giudicarsi soddisfacente a condizione di perdonarne i limiti, il principale dei quali risiede nella cautela con cui la stessa giurisprudenza costituzionale fa leva sull’indicazione virtualmente anti-sistema ricavabile dall’art. 3 della Costituzione che esige la rimozione delle contraddizioni strutturali di una società capitalistica. Quindi, non è da visionari immaginarsi l’esistenza di una cabina di regia affollata da interpreti che in altra occasione ho chiamato tessitori. Li ho chiamati così perché la loro propensione a riannodare piuttosto che a tagliare i fili del discorso giuridico ha finito per alimentare una vera e propria vocazione di ceto che – nonostante gli scartigenerazionali e i differenti contesti – sospinge gli operatori giuridici ad azionare la spola in modo che il loro avvicendarsi al telaio non provochi lacerazioni o brusche interruzioni nella trama del disegno complessivo. Infatti, a furia di moderare la pretesa di perseguire la quadratura del cerchio quasi vergognosi di avanzarla o intimoriti dalla sua radicalità, col passare del tempo si è andata inavvertitamente perdendo la nozione sia del quadrato che del cerchio.
D’altronde, l’idea dominante di diritto del lavoro resterà polarizzata sullo scambio contrattuale di utilità economiche anche in epoca posteriore all’entrata in vigore della normativa statutaria. Infatti, la raggiunta consapevolezza che l’impatto delle regole del lavoro sulla vita delle persone eccede il quadro delle relazioni che nascono da un contratto tra privati non è bastata per reinventare un insieme di regole non più piegate all’esigenza di disciplinare i comportamenti del lavoratore dipendente in conformità con gli standard di prestazione imposti al lavoro organizzato, ma più attente ai valori extra-contrattuali ed extra-patrimoniali più vulnerabili al contatto con l’interesse al profitto d’impresa. E, se non è bastata, bisognerebbe chiedersi perché. Si scoprirebbero percorsi interrotti e transizioni interminate, nuovi inizi e la loro fine precoce, tanti “si fa, ma non si dice” e il loro contrario. Come dire: una serie di vincoli di sistema sotterranei, ma non segreti. I medesimi cui si sottrae intenzionalmente l’operazione intellettualistica di ripristino e rilancio di un diritto del lavoro più diverso che nuovo. In effetti, si è optato di collocarla al di fuori delle consuete coordinate dell’esperienza giuridica e di immetterla all’interno di un quadro di artificiosa unilateralità, pagando con l’indeterminatezza della realizzabilità d’un desiderio la riabilitazione della mitologia del creazionismo giuridico che si riassume nell’equazione secondo la quale “come un dio creò l’universo, così il legislatore crea il diritto”. Una mitologia di cui, indipendentemente dall’idioma che parlano, tutti i giuslavoristi sono disposti a riconoscere l’inconsistenza, perché sanno bene che l’evoluzione della disciplina è sostenuta solo in parte dalla creatività legislativa e anzi sperimentano quotidianamente come non sia dato rinvenire un settore dell’esperienza giuridica dove risulta più sbugiardata.
Come diceva Gino Giugni, il diritto del lavoro può aspirare a qualificarsi come diritto vivente soltanto se “evolve più attraverso giudizi che non mediante i contratti collettivi e le leggi”. Per questo, in nessun luogo è dato imbattersi in legislatori (ed interpreti) più permeabili alla pressione non solo delle minoranze che gremiscono le piazze per protestare e rivendicare, ma anche e soprattutto della maggioranza silenziosa abituata a comprare le opinioni come il latte, in conformità col principio di buon senso secondo cui costa meno acquistarlo dal lattaio che tenere una mucca nel cortile di casa. Pertanto, quando dico (come mi succede spesso) che quello del lavoro è un diritto a misura d’uomo, intendo dire inter alia che cambia adagio, ma senza soste; esattamente come il modo di pensare e di vivere, che si gradirebbe cambiasse con la velocità impercettibile dei ghiacciai anche (e anzi soprattutto) quando è costretto a rincorrere fatti che si susseguono a ritmo vertiginoso. Intendo dire, insomma, che il modo prevalente di pensare e di vivere possiede un’attitudine pre-formativa dell’idea di diritto del lavoro. E’ un’attitudine che è rimasta sostanzialmente intatta da quando, un secolo fa o poco più, moltitudini di artigiani non più del tutto artigiani e di contadini non più del tutto contadini cominciarono a capire che bisognasse mettere al mondo un diritto capace non tanto di rifarlo daccapo quanto piuttosto di aggiustarlo un po’ col metodo, non opportunistico né contingente, di un sano pragmatismo.
E’ questo il metodo di cui si percepisce maggiormente la mancanza nel documento che prefigura la riscrittura del diritto del lavoro in un orizzonte di senso che restituisce alle parole un significato non più metaforico.
Inoltre, se l’esplicita scelta di irrobustire le tutele del lavoro attualizzando le prescrizioni costituzionali è il suo principale pregio, contemporaneamente ne rivela la debolezza. La verità è che il capitalismo non è più quello d’una volta e, nel passare dall’economia di scala all’economia di scopo in un mercato globalizzato, ha cambiato lo stesso lavoro. Ormai, perduti il profilo identitario e l’unità spazio-temporale che aveva in passato, neanch’esso è quello di prima: da maiuscolo e tendenzialmente omogeneo che era (come ama dire Aris Accornero) è diventato minuscolo ed eterogeneo. Viceversa, il referente privilegiato dell’agenda che si è data la Cgil è il lavoro coevo alla grande impresa industriale del ‘900, mentre il lavoro occasionale, a gettone, a chiamata della realtà destrutturata della Uber economy e dell’economia sommersa rimane ai margini e fuori controllo. Come dire: il documento è l’anticipazione della strategia di politica del diritto che la Cgil si prepara a perseguire allorché, col cessare di uno sciopero degli investimenti di capitale senza precedenti per compattezza e durata che ha impoverito il sistema produttivo, sarà restituita all’economia reale la centralità che le spetta. Come dire che in Cgil è ancora forte la persuasione che, superata la crisi, tutti i discorsi – quello giuridico incluso – ripartiranno da dove si sono bloccati e sono ancora in molti a pensare che il virtuoso rapporto d’interazione tra economia e democrazia conosciuto nei “trenta gloriosi anni” del secolo XX non si è spezzato per sempre; soltanto, si è provvisoriamente sospeso. Aveva infatti ragione Vittorio Foa a ritenere che “si ha rottura epocale quando cambiano non solo le cose che vediamo, ma anche le categorie che adoperiamo per vederle”.
Per quanto la sua sorte sia legata al verificarsi di avvenimenti futuri ed incerti, il documento non è sbrigativamente liquidabile come se fosse il risultato di un’esercitazione scolastica, perché la Cgil lo ha inscritto nella propria agenda, ripromettendosi di misurarne nell’immediato l’efficacia operativa. A suo avviso, serve per condurre una campagna di sensibilizzazione e socializzare persino la conoscenza di ruvidi specialismi. Per uscire dalla stanchezza rivendicativa degli ultimi anni, se non decenni, e mobilitare almeno i propri iscritti, possibilmente in vista dell’attivazione di una raffica di procedure referendarie. Per vivacizzare una cultura giuridica subalterna al pensiero unico e rianimare il giuslavorismo progressista col fiato grosso. Ciononostante, e anzi proprio per questo, non è da escludere che si finirà per dover ammettere che, al di là delle intenzioni, era stata progettata un’arma di distrazione di massa.