Adesso dovrebbe essere chiaro a tutti che inseguire gli andamenti mensili dell’occupazione e soprattutto trarre valutazioni definitive è un esercizio poco scientifico e utile. Sia che si voglia militare nelle file degli ottimisti “a prescindere” che dei pessimisti “a oltranza”. La lettura dei dati di fine gennaio (+98000 nuovi contratti a tempo indeterminato) eccitò gli ottimismi di ogni tipo, poco attenti al fatto che molti dei nuovi occupati erano conseguenza della corsa delle aziende ad accaparrarsi in extremis il forte incentivo del 2015 (sgravo di 8060 euro annui per 3 anni per ogni lavoratore stabile). A fine febbraio, la gelata. 97000 occupati in meno hanno inaugurato la nuova fase degli incentivi (scesi a 3250 euro per 24 mesi). Ed è partita la carica dei pessimisti.
Né giova agli ottimisti allungare l’occhio a tutto il 2015, che registra (tra febbraio 2015 e febbraio 2016) un + 238000 occupati a tempo indeterminato e un -136000 disoccupati. Anzi, è un dato che certifica che la recessione non è ancora alle nostre spalle, perché determinato appunto dal forte incentivo a stabilizzare, più che da una significativa crescita della produzione di beni e servizi. Infatti, l’impatto iniziale, nel nuovo anno, è in controtendenza. Questo non autorizza a concludere che a fine 2016 ci sarà certamente una caduta occupazionale che si mangerà il successo del 2015. Ma se, come si dice, il buon giorno si vede dal mattino, la strada è tutta in salita.
Né potrebbe essere diversamente. Nel mondo non tira una buona aria, anche se dagli Stati Uniti arriva la notizia che a marzo l’occupazione è cresciuta di 215000 unità. Ma se si va a guardare in quali settori è cresciuta, si nota che riguarda soprattutto il terziario (commercio, sanità, costruzioni), mentre nel manifatturiero e nell’estrattivo è calata. Il nostro export ne potrà risentire, mentre la domanda interna stenta a dare segnali univoci sulla sua ripresa. E infine, la spesa pubblica in investimenti produttivi e in ricerca, sia pubblici che privati, è condizionata più dalle decisioni che verranno assunte a Bruxelles che a Roma.
A meno che….Le alzate di scudi sulla inefficacia degli incentivi all’occupazione che si stanno riscontrando a seguito dei cattivi dati di febbraio, sembrano tutti orientati a screditare questo tipo di manovra. Certo, questa è costosa (10 miliardi annui, per il triennio iniziato nel 2015 a cui vanno aggiunti i circa 3000 previsti per il 2016). Ma va misurata sia con la riduzione del costo della Cassa integrazione guadagni, sia con l’aggravamento della situazione sociale che si sarebbe registrato senza quegli incentivi. Con molta onestà, uno dei critici più tenaci delle scelte economiche del Governo, Luca Ricolfi si è chiesto: “come sarebbero andate le cose senza la decontribuzione?…… La maggior parte degli analisti e dei centri studi ritengono che decontribuzione e triplo stimolo (cambio, petrolio, QE) abbiano prodotto effetti positivi non trascurabili su Pil e occupazione” (Decimali del lavoro ed economia, Il Sole 24 Ore, 3 apr 2016).
Sarebbe un grave errore se quella strada fosse abbandonata. Semmai deve perdere il carattere congiunturale che ha assunto nel 2016. Il Governo deve dare certezze. Semmai, la decontribuzione per i nuovi contratti a tempo indeterminato dovrebbe diventare strutturale e trasformarsi in un taglio permanente del cuneo fiscale. Soltanto così, le imprese, che devono programmare i propri investimenti, possono contare su valutazioni stabili e non occasionali del costo del lavoro.
Alibi per non investire ce ne sono a bizzeffe. Purtroppo questo è tempo di prudenze e non di rischio, sia pure calcolato. Anche se c’è tanto risparmio disponibile, la propensione agli investimenti e ai consumi delle famiglie è ancora basso, rispetto a quanto avviene in Europa. Almeno i secondi non dovrebbero essere penalizzati dalle prossime manovre della legge di stabilità.
Ma c’è un ‘altra considerazione che va tenuta presente. Durante questi lunghi anni di crisi, la questione meridionale è entrata in un cono d’ombra. Ma ora che i distretti industriali – quasi tutti concentrati nel Centro Nord – hanno ripreso una rapida e sotto certi aspetti sorprendente vitalità (vedere la fitta documentazione dell’ottavo Rapporto annuale di Intesa San Paolo), il divario con il Mezzogiorno si può ulteriormente aggravare, se finanche gli sgravi contributivi fossero abbandonati. Il costo del lavoro non è la causa della bassa crescita della produttività e del Pil italiani, ma senza il suo alleggerimento, soprattutto per i giovani, le opportunità di far nascere qualcosa di nuovo nel Mezzogiorno diventano ancora più fioche.
In definitiva, attorno ai dati sull’occupazione può nascere una strumentalizzazione finalizzata a dirottare risorse. Non può essere favorita né dall’indifferenza, né dalle logiche di schieramento. Mettere al riparo di questi atteggiamenti la possibilità di creare occupazione, dovrebbe essere un impegno di grande valore per evitare che le ragioni della coesione sociale siano ulteriormente subordinate ad altre pur legittime esigenze ed aspettative.