E’ passata un po’ in sordina la visita di 5000 membri della Confindustria, con rispettive famiglie, in Vaticano per ascoltare Papa Francesco, il 9 settembre scorso. Eppure essa ha un duplice significato, specie se si considera il momento in cui è avvenuta: una fase di pre crisi economica e sociale, forse più dura di quella della pandemia e su cui incombe il risultato delle elezioni politiche, anticipate con un classico blitz alla Giuda.
Quello che tocca la Chiesa, lo ha esplicitato il Papa che non si è affatto sottratto ad un confronto pastorale e diretto; egli conferma la sua impostazione di apertura verso i mondi vitali della società e di considerare “tutti fratelli”. Il solo fatto di ricevere i rappresentanti di uno dei più forti sistemi industriali europei – croce e delizia della storia italiana nel corso della seconda metà del secolo scorso e dei primi decenni di quello corrente – rende l’evento, nel mondo della Chiesa, un propulsore di attenzioni e di comprensione nient’affatto secondario.
Lo scontro tra capitale e lavoro che, a partire dalla Rerum Novarum di Leone XIII (1891) e finanche alla Teologia della Liberazione, è stato visto fondamentalmente come questione sociale, potrebbe avere un’evoluzione interessante anche in considerazione della invadenza dell’intelligenza artificiale (c’è chi sostiene che il robot potrebbe avere un’anima) e della necessità di salvare l’ambiente cambiando la qualità dello sviluppo, rendendolo sostenibile. In questa logica, quello scontro sfuma, resta sullo sfondo.
Il soggetto principale diventa l’impresa, in quanto comunità di molte culture e interessi, di forti interazioni, tra interno ed esterno, nella creazione di beni e servizi. Dare senso alla sintesi di queste pulsioni che quotidianamente si confrontano nei luoghi di lavoro, implica più prese di posizione del cattolicesimo piuttosto che prese di distanza. Chi vuole una qualche conferma di questa visione che travalica lo scontro ideologico (non a caso il Papa ha citato Adriano Olivetti e il suo comunitarismo), può cercarlo nel testo del discorso del Papa, qui pubblicato integralmente.
Dal lato della Confindustria, almeno stando al discorso del suo Presidente, sembra esserci una qualche assonanza. Bonomi ha parlato di necessità di un “nuovo umanesimo industriale” e quindi ha candidato la sua organizzazione a diventare “progettista di futuro, assieme a tutti gli altri attori della società”. Dalle indicazioni di merito che ha fornito, si percepisce la voglia di non rimanere imballato sul presente, anche se carico di incognite. Ha individuato nella denatalità, nella centralità del lavoro fino a parlare di “rivoluzione nei tempi di lavoro”, nell’avversione all’assistenzialismo disincentivante l’impegno per e nel lavoro, i terreni su cui dare gambe all’”umanesimo industriale”.
Indubbiamente, lo sguardo è lungo, carico di messaggi all’interno della sua organizzazione e anche all’esterno. Semmai non tutto ciò che ha indicato è sufficiente a sostanziare l’ambizione di guidare il futuro. Penso, ad esempio, alla questione del rapporto tra finanza e attività economica, al tema della partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche aziendali per prevenire le crisi e disegnare la crescita. Comunque, nel tempo in cui il qualunquismo e il congiunturalismo hanno tanto spazio nel dibattito pubblico, non è un cattivo segnale.
Ma c’è un ma. Questa visione avveniristica non giustifica una richiesta di confronto con il Papa; la si poteva enunciare in qualsiasi altra sede. Né che ci fosse un obbligo morale perché la Confindustria dovesse inchinarsi all’autorità spirituale di un grande Papa. La ragione l’ha spiegata chiaramente Bonomi introducendo il suo discorso: “Oggi a procurarci grande preoccupazione non sono solo gli effetti della spaventosa guerra in corso in Ucraina, i costi dell’energia e la perdurante bassa occupazione nel nostro Paese, ma l’onda di smarrimento, sfiducia e sofferenza sociale che esprime una parte troppo vasta della società italiana”. Solo in apparenza sembra che parli di altri, ma nella sostanza non esclude neanche le preoccupazioni e gli atteggiamenti dei presenti.
Una Confindustria non saccente non la vedevamo da tanto tempo. La vera ragione dell’incontro sta nel bisogno di farsi coinvolgere in una dimensione valoriale diversa dalla propria natura di portatore di interessi, sia pure non corporativi. L’incertezza colpisce trascinandosi paure, chiusure, ribellismo. E finche riguarda le fasce povere e quelle in via d’impoverimento che da tempo ormai convivono con l’incertezza del lavoro, delle quadrature dei bilanci familiari non ci sarebbe niente di nuovo. Se invece lambisce l’imprenditoria vuol dire che la diga che divide benessere e miseria sta cedendo e la coinvolge.
Con attento silenzio hanno ascoltato Papa Francesco che ha cercato di corrispondere alle attese, ma senza rinunciare a dare sciabolate senza diplomazia su questioni cruciali (non licenziare le madri, stipendi troppo alti per i dirigenti e troppo bassi per i lavoratori, il patto fiscale è l’essenza del patto sociale). Cosa sia rimasto nei cuori e nelle menti di questa fetta consistente dell’elité di potere italiana, lo potremo sapere a breve, quando la crisi energetica e l’esigenza di non frenare l’affermazione di una economia circolare richiederanno alla classe dirigente italiana di drizzare la schiena e fare la propria parte.
In ogni caso, le organizzazioni del sociale, primariamente quelle che rappresentano i lavoratori, non dovrebbero far cadere nel vuoto queste prese di posizioni così solennemente ufficializzate. Anzi, assumerle come una sfida per ridiventare, dopo una lunga parentesi di difensivismo e di troppa delega al legislatore, soggetti decisivi per ridisegnare ciò che sarà questo Paese.