La sineddoche è una figura retorica che serve a rendere vario il discorso così da farci comprendere più cose come una sola come il tutto con una parte. Il riferimento a questa figura è riemersa da un passato antico di studi, assistendo al dibattito elettorale (peraltro va segnalata la puntuale ricerca di ADAPT sul programma dei partiti) in materia di lavoro, sulla questione specifica del Jobs act, il pacchetto di norme (una legge di delega più otto decreti delegati) che a cavallo tra il 2014 e il 2015 ha profondamente innovato il diritto del lavoro.
Il jobs act, fin dall’inizio e in crescendo col passar del tempo, è divenuto una sorta di codice genetico che divide la sinistra politica e sindacale; o meglio che chiama allo scoperto la compresenza, spesso sotto lo stesso tetto di ben due sinistre: quella riformista e quella reazionaria. La prima è stata la protagonista, a livello culturale e politico, del Jobs act; la seconda lo ha giudicato un atto contro natura per una sinistra rispettabile. Che cosa c’entra allora la sineddoche? Nel caso del jobs act funziona al contrario, nel senso che viene condannato il tutto per una parte: l’intero pacchetto a causa del dlgs n.23/2015 che – istituendo il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti – ha previsto per coloro a cui si applica, una diversa disciplina del licenziamento individuale illegittimo.
Nel corso della campagna elettorale, il jobs act (nella versione del tutto per una parte) è stato rinnegato anche dalla sinistra riformista, prima che il gallo cantasse tre volte. La svolta è stata repentina. Se osserviamo il programma elettorale del Pd possiamo notare che non vi sono sconfessioni del lavoro svolto negli ultimi anni, assai criticato dalle formazioni alla sua sinistra e anche da qualche esponente dem: “Se molti giovani sono disoccupati è anche perché oggi, in Italia, la transizione tra scuola e lavoro – è scritto ancora nel programma – è più lunga che in tutti gli altri paesi europei. Ecco perché, accanto a quanto fatto finora col Jobs act e con la Buonascuola, disegneremo anche in Italia, come già esiste da tempo in Francia, Germania e nei paesi del Nord Europa, un canale formativo professionalizzante che si sviluppi, in maniera integrata con il nostro sistema d’istruzione, a livello secondario e terziario”.
Poi, il fulmine a ciel sereno. Enrico Letta si è presentato a Cernobbio per affermare che occorre «Superare il Jobs act sul modello di quanto fatto in Spagna contro il precariato». Ma le quattro palate di terra definitive su quel pacchetto di altri tempi le ha messe a stretto giro di posta Andrea Orlando, ministro del Lavoro (in sonno), il quale ha dichiarato in una intervista che: “Il Jobs act non è stato solo l’abolizione dell’articolo 18, è stata l’ultima grande scommessa liberista sul mercato del lavoro di una serie che inizia negli anni Novanta, e a cui la sinistra ha partecipato”.
È più o meno l’opinione di Maurizio Landini per il quale chi ha partorito il Jobs act non può essere definito di sinistra, tanto che la Cgil nelle sue richieste al nuovo governo ne chiede l’abolizione. Ovviamente – immaginiamo – si parla sempre del “tutto per una parte” ovvero del d.lgs. n. 23 del 2015, mentre non è chiaro se nel mirino ci sia anche la legge n.92 del 2012 che ha “novellato” l’articolo 18 dello Statuto del 1970.
Ma al di là delle polemiche politiche e sindacali, fino ad ora clamorose ma impotenti, la nuova disciplina del licenziamento individuale è già stata bombardata quasi a tappeto dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità (ci fermiamo a questi due livelli “tombali” per una norma di legge). La prima menomazione (sentenza n. 184/2018) ha demolito la prevedibilità dei costi del licenziamento, nel contratto tutele crescenti, ragguagliato all’anzianità di servizio (che poi, guarda caso, è il criterio vigente nell’ordinamento spagnolo). Fatta salva la soglia minima dei due anni, la dichiarazione di incostituzionalità ha riguardato il meccanismo di predeterminazione rigida dell’indennità di importo di due mensilità per ogni anno di servizio, in quanto essa, come si esprime la Corte, non lascia alcuno spazio alla «prudente discrezionalità valutativa del giudice», che peraltro era proprio ciò che intendeva innovare la legge.
L’argomento principale utilizzato dalla Corte per censurare tale criterio di calcolo è la sua contrarietà ad un principio, a suo avviso ricavabile dalla Costituzione, secondo cui, affinché il risarcimento del danno sia adeguato, anche se non integrale, è imprescindibile che il legislatore lasci sempre uno spazio di discrezionalità al giudice.
Poi con la sentenza n. 59 del 2021 la Corte ha sanzionato la norma della legge n. 92 nella parte in cui prevede che il giudice, una volta accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può altresì applicare”, invece che “applica altresì” la c.d. “tutela reintegratoria attenuata” (ossia la reintegrazione nel posto di lavoro oltre ad un’indennità non superiore a 12 mensilità, detratto l’aliundeperceptum e l’aliundepercipiendum).
Sui medesimi aspetti la sentenza n. 125 del 2022 ha stabilito che il requisito del carattere ‘manifesto’ dell’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, richiesto per disporre la reintegra, è indeterminato, prestandosi ad incertezze applicative e potendo condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento: di fatto, sostiene la sentenza, tale requisito demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e, per di più, priva di un plausibile fondamento empirico. Come se nello stabilire l’entità del risarcimento il giudice non dovesse affidarsi a criteri anch’essi indeterminati.
Sulla medesima problematica – sia pure in maniera indiretta a proposito della decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro – è intervenuta di recente la Suprema Corte di Cassazione (SCC) con sentenza n. 26246, pubblicata il 6 settembre scorso sia pure in maniera indiretta a proposito della decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro. È opportuno ricordare che una giurisprudenza costituzionale consolidata aveva di fatto introdotto la regola del differimento del decorso della prescrizione, facendola iniziare dal giorno della cessazione del rapporto di lavoro, nelle ipotesi in cui il rapporto non era assistito da c.d. stabilità reale in caso di licenziamento illegittimo.
In sintesi, la discriminante verteva sul numero dei dipendenti. Per quelli alle dipendenze di aziende con oltre 15 dipendenti, dove un licenziamento giudicato illegittimo determinava la tutela reale con la reintegra nel posto di lavoro, la prescrizione decorreva, di mese in mese, durante lo svolgimento del rapporto stesso; mentre, per chi prestava attività lavorativa presso datori che occupavano sino a 15 dipendenti, la prescrizione cominciava a decorrere dopo il licenziamento o le dimissioni.
I motivi di questa differenziazione erano evidenti e si basavano sul presupposto che i lavoratori delle piccole realtà lavorative correvano il rischio di possibili ritorsioni (o anche di licenziamento) nel caso in cui avessero avanzato richieste di differenze retributive, per quanto legittime, nel corso del rapporto di lavoro.
Nei passaggi chiave della sentenza, la SCC sostiene quanto segue: “Nel solco dell’indirizzo della giurisprudenza costituzionale, si è posta anche questa Corte di legittimità, che, con un noto arresto nella sua più autorevole composizione, ha ben chiarito la distinzione del doppio regime di (decorrenza della) prescrizione, a seconda della stabilità o meno del rapporto di lavoro.
Essa ha così enunciato il principio, poi costantemente seguito, di non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro durante il rapporto di lavoro solo per quei rapporti non assistiti dalla garanzia della stabilità: dovendosi ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo.
Il che, se per la generalità dei casi coincide(va) attualmente con l’ambito di operatività della legge 20 maggio 1970, n. 300 (dati gli effetti attribuiti dall’art. 18 all’ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604), può anche realizzarsi ogni qual volta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che diano al prestatore d’opera una tutela di pari intensità”.
Di seguito prosegue la sentenza della SCC: “Pertanto, dovendo ora tali regole essere conformate ad una disciplina dei rapporti di lavoro (instaurati con datori in possesso dei requisiti dimensionali prescritti dall’art. 18, ottavo e nono comma l. 300/1970, nel testo novellato dall’art. 1, comma 42, lett. b) l. 92/2012 e pure richiamato dall’art. 1, terzo comma d.lgs. 23/2015) più flessibilmente modulata in ordine alle tutele previste, a seconda delle vari ipotesi di licenziamento (queste pure suscettibili di una diversa qualificazione, rispetto alla domanda, in sede giurisdizionale), il criterio di individuazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore deve soddisfare un’esigenza di conoscibilità chiara, predeterminata e di semplice identificazione.
Ciò presuppone che, fin dall’instaurazione del rapporto, ognuna delle parti sappia quali siano i diritti e soprattutto, per quanto qui rileva, quando e “fino a quando” possano essere esercitati: nel rispetto e nell’interesse del lavoratore, destinatario della previsione in quanto soggetto titolare dei diritti; ma parimenti del datore di lavoro, che pure deve conoscere quali siano i tempi di possibili rivendicazioni dei propri dipendenti, per programmare una prudente, e soprattutto informata, organizzazione della propria attività d’impresa e della sua prevedibile capacità di sostenere il rischio di costi e di oneri, che quei tempi comportino.
In realtà, – riconosce la sentenza – si tratta di interessi (sia pure espressione di posizioni soggettive diversamente collocate nell’organizzazione dell’impresa, rette da un rapporto di subordinazione e tuttavia non antagoniste) largamente convergenti, in una prospettiva più ampia, che sempre andrebbe considerata nell’interpretazione e nella prassi operativa: perché i rapporti di lavoro sono intimamente implicati nella vita dell’impresa”. A noi pare che questa proclamata convergenza di interessi richiederebbe facoltà divinatorie del datore.
Per farla breve il datore di lavoro che assume un dipendente con un contratto a tutele crescenti deve mettere in conto alcuni aspetti che, nel 2015, sembravano un retaggio del passato: il datore non ha più la certezza dei costi del licenziamento; non può più contare in caso di insussistenza del motivo in un atteggiamento più flessibile del giudice; deve aspettarsi, per tutto il tempo in cui scorre la prescrizione, che il dipendente, una volta risolto il rapporto di lavoro, lo chiami in causa per la mancata attribuzione di un inquadramento professionale superiore, magari risalente ad anni precedenti.
A chi scrive tutto ciò sembra fare parte di una finzione giuridica. Si direbbe del tutto teorico il presupposto in base al quale chi fosse protetto dal glorioso articolo 18 dello Statuto del 1970 si sentisse libero da ogni preoccupazione nel citare in giudizio il proprio datore di lavoro (l’esito della controversia sarebbe stato comunque incerto e i rapporti non sarebbero migliorati in nessun modo tra le parti, per cui il dipendente avrebbe potuto solo lucrare sull’extraliquidazione in vista di una transazione). Ad insistere su questa linea giurisprudenziale – a fronte delle norme novellate e di quelle di nuova introduzione – assume un preciso significato e manda un messaggio chiaro: la vera tutela contro il licenziamento illegittimo è solo quella ad efficacia reale.