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La trappola del neocorporativismo

Passo dopo passo, la Presidente del Consiglio dei Ministri svela la sua strategia di governo. Se con la legge di stabilità ha accontentato la “pancia” del suo elettorato con misure che finanche la Banca d’Italia ha criticato. Se con i giuramenti sull’atlantismo cerca di frenare le simpatie verso Putin presenti nella sua maggioranza, ma nello stesso tempo mette nell’ombra la priorità dell’essere in un’Europa destinata a federarsi. Nelle uscite più politiche delinea sempre meglio la visione del Paese che intende modellare. 

Così, davanti agli industriali veneti ha ribadito un concetto già espresso in Parlamento nella replica al dibattito sulle sue dichiarazioni programmatiche. “Non va disturbato chi produce”, riducendo il concetto di produttore a chi fa e trae profitto dall’impresa, piuttosto che all’insieme dell’impresa stessa e quindi anche dei lavoratori. Aggiungendo, per chi non avesse capito, che il Governo avrebbe fatto tutto il possibile per spianare la strada alle libere scelte imprenditoriali dopo “il troppo tempo sprecato per distruggere la cultura del lavoro su cui è fondata la nostra Costituzione”.

Nessun processo alle intenzioni, ma Meloni si è vantata, di fronte a giornalisti un po’ insistenti, di essere una persona che non lo manda a dire. Se vuole dire qualcosa, la dice e basta. In questo caso, lei vede nell’imprenditore il deus machina del lavoro e siccome non ha tolto il saluto al sindacato, lo considera una sorta di supporto dell’egemonia del proprietario dell’azienda. Non ha citato il corporativismo – concetto evocativo del fascismo e quindi da aggirare – ma lì stiamo.

Sarebbe sbagliato sottovalutare questa visione. Certo, alla Meloni non manca intelligenza per riconoscere che durante la pandemia la collaborazione nell’impresa tra management e sindacati è stata decisiva per contenere i contagi. Una cooperazione che ha come antenata la concertazione tra Governo e parti sociali che ha consentito negli anni 80 e in buona parte degli anni 90  di portare l’Italia fuori dalla tempesta della stagflation che l’aveva investita. 

Ora, siamo usciti dalla pandemia, ma nella società sembra che si siano disperse rapidamente quelle spinte alla solidarietà e alla cooperazione che ci avevano distinti di fronte al mondo. Si è accentuata una corsa alle tutele spicciole e alle rivendicazioni dei più forti, dei più garantiti. La destra ha cavalcato questa involuzione. La sinistra non ha trovato le parole giuste per contrastarla.

Ma la realtà può causare più tensioni sociali che soluzioni soddisfacenti. La Meloni ne è consapevole e punta sul neo corporativismo a guida imprenditoriale per esorcizzarle. Finora le posizioni della Confindustria non sembrano andare in questa direzione e a Urso, Ministro all’Imprese e al Made in Italy (il cambio di denominazione è tutto un programma), che aveva convocato soltanto i rappresentanti delle imprese dell’automotive per discutere sulla loro crisi, il vice Presidente della Federmeccanica La Forgia ha ricordato che bisognava chiamare anche i sindacati per trovare le soluzioni. 

Ma toccherà soprattutto ai sindacati confederali trovare unità di intenti oltre che d’azione per contrastare il disegno strategico. La questione lavoro diventerà sempre più centrale se si vorrà realizzare al meglio il PNRR, anche di fronte ad una congiuntura che migliori. Non si può chiudere nella fortezza del lavoro più tutelato. Non può gestire una transizione verso lo sviluppo “sostenibile” con gli strumenti usati quando lo sviluppo era “sostenuto”, con cifre positive dell’incremento del PIL. Non deve delegare alla politica e al legislatore la ricerca delle soluzioni più idonee a ricomporre il mondo del lavoro. Ma soprattutto deve essere espressione di una pluralità di modi di essere “lavoro” responsabile, creativo, solidale.

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