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Il PNRR, lo sviluppo, il lavoro e l’assenza del sindacato

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, inserito all’interno del programma Next Generation Eu, è un piano di interventi di sviluppo, del valore complessivo di 750 miliardi di euro, deciso dall’Ue come risposta alla crisi pandemica, attraverso l’assunzione di un debito comune, che rappresenta un significativo passo in avanti in termini di sovranità autonoma dell’Unione Europea. 

In relazione alla valutazione di una serie di parametri, all’Italia è stata assegnata la quota maggiore pari a 191,5 miliardi di euro, a cui sono stati aggiunti 30,6 miliardi da parte del governo italiano, per un totale di 222,1 miliardi. Il piano si sviluppa attorno a tre assi strategici: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, inclusione sociale, articolato in una serie di obiettivi particolari, da realizzare entro il 2026. 

E’ una eccezionale quantità di risorse, a cui si aggiunge la quota del nuovo ciclo del Fondi di coesione 1921-27,per un totale complessivo attorno ai 300 miliardi, del tutto impossibile con i nostri mezzi dato l’elevato nostro debito pubblico, pari al 147% del Pil, assieme alla Grecia in coda nella Ue. Per l’Italia si tratta quindi di un’occasione storica che consente di affrontare, in maniera consapevole, i maggiori problemi strutturali dell’economia e della società italiana, a partire dal divario storico Nord-Sud, tanto che a quest’ultimo è assegnato il 40% dell’intero pacchetto di risorse. 

Il Governo Draghi ha dato un volto preciso al piano, in stretto contatto con l’Ue, la quale, oltre che seguire le varie fasi della sua realizzazione, subordinando l’erogazione delle diverse tranche delle risorse allo stato di effettivo avanzamento dei progetti, ha preteso alcune riforme strutturali come la concorrenza, la giustizia, il fisco. Fin da subito, è apparso il carattere impegnativo dell’intero progetto, rispetto alle concrete possibilità di progettazione e di governance dei progetti da parte del governo, anche se l’impegno e il rigore con cui Draghi affrontò il problema consentì di realizzare le prime tappe. 

Il governo di destra-centro, segnato da un prevalente euroscetticismo, ha cercato di affrontare il problema in termini rivendicativi, richiedendo subito la possibilità di operare alcune modifiche sulla base dei cambiamenti intervenuti, Nello stesso tempo sono apparsi i limiti della nuova classe dirigente del governo e un certo suo isolamento rispetto agli esperti necessari nelle varie materie, mentre, nella stessa maggioranza, sono cresciute le resistenze politiche a realizzare le riforme come la concorrenza (balneari),  giustizia (superamento della riforma Cartabia). Questo modo contraddittorio di gestire gli aspetti complessi del Pnrr ha determinato un rallentamento dei bandi e delle procedure, specie quando i progetti hanno incominciato a coinvolgere gli enti locali. 

Negli ultimi giorni,  per cercare di recuperare il tempo perduto, si è deciso di accentrare la gestione del Pnrr a Palazzo Chigi ma, nonostante l’Ue sia disponibile, la possibilità di rimettersi in carreggiata nei tempi di attuazione appare molto problematica, anche perché nel governo si è aperto un duro confronto sulle nomine nei maggiori enti pubblici, destinato a determinare  situazioni di discontinuità nella gestione di importanti progetti. 

Tutto questo, mentre conferma la rilevanza eccezionale del Pnrr, mette in evidenza le difficoltà e il limiti della politica nel realizzarlo. Per questo, sia dalla fase di definizione del Piano che della sua gestione sarebbe stata necessaria una partecipazione attiva e responsabile delle diverse parti sociali, espressioni importanti della nostra società democratica. Tra queste, in particolare va considerato il sindacato, che nella vicenda avrebbe dovuto impegnare il meglio di sé per poter raggiungere risultati di rilevanza storica nelle riforme che riguardano direttamente l’ambito della sua rappresentanza: il lavoro, la formazione, la previdenza. 

Tanto più che il quadro della situazione del Paese su questi problemi appare contrassegnato da ritardi, carenze, contraddizioni, fino alla rimessa in discussione di diritti costituzionalmente garantiti. Una presenza fatta di proposte, anche tramite intese con le controparti imprenditoriali, e una concertazione sociale finalizzata ad accentuare il carattere strutturale e maggiormente ugualitario delle decisioni.  

La cosa era particolarmente possibile con il governo Draghi, ma è mancata la cultura e la determinazione unitarie per far diventare il sindacato parte in causa e protagonista di questo progetto storico. Ora, con il governo Meloni, c’è il serio rischio che tutto di risolva in un risultato parziale e insufficiente, finalizzato essenzialmente a spendere più soldi possibile. Il sindacato dovrebbe perciò aprire un confronto sul tema, magari rafforzato da un’intesa comune con Confindustria, su alcuni obiettivi di merito e sulle riforme necessarie, oltre che sui criteri di governance dell’intero progetto. Altrimenti il rapporto governo sindacati sarà essenzialmente difensivo su singoli problemi di crisi, con il rischio di un confronto strumentalizzato per ragioni di consenso. 

Oltretutto, la ripresa di un confronto strategico risulta coerente  con la rivendicazione di gran parte del sindacato di un patto sociale con il governo. Una prospettiva positiva, ma che per renderla effettiva è necessario sviluppare la contrattazione collettiva al livello delle trasformazioni in corso nei vari aspetti del lavoro e del welfare e una incisiva iniziativa con il governo partendo da una propria piattaforma. Una iniziativa che, oltre a rilanciare il ruolo essenziale del sindacato, contribuisca a ravvivare la nostra democrazia.

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