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Il tema del lavoro fra Costituzione e Riforma

Il tema del lavoro è affrontato nei Princìpi Fondamentali della Costituzione sotto un duplice punto di vista: in primo luogo esso è posto, all’articolo 1, come pilastro sul quale è fondata la Repubblica; in secondo luogo, all’articolo 4, il diritto al lavoro viene riconosciuto a tutti i cittadini e la Repubblica si impegna a promuovere le condizioni che lo rendano effettivo.

In una prima versione dell’articolo 1 redatta sul modello della Costituzione spagnola del 1931, emersa durante il dibattito dell’Assemblea Costituente, l’Italia veniva definita una Repubblica democratica di lavoratori. Questa versione venne poi bocciata sia per motivi giuridici, il rischio che l’accesso ai diritti potesse discendere dall’avere o meno un posto di lavoro, sia per motivi politici derivanti dai compromessi fra DC e PCI. Nella versione definitiva, “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, il lavoro come fondamento fa sì che esso possa essere considerato a livello costituzionale come base per la dignità e la libertà dell’individuo. Al tempo stesso, l’articolo 4 pone invece invece il lavoro sul piano dei diritti e dei doveri perché, se al primo comma esso viene riconosciuto come diritto, al secondo comma viene esplicitamente stabilito che “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. È proprio con queste ultime parole che la Costituzione ci spiega quale sia il fine ultimo del lavoro: il progresso materiale o spirituale della società.

Venendo al tema della Riforma e delle sue implicazioni sul lavoro, è necessaria una breve parentesi  sui limiti alla modifica della Costituzione, da un lato e della necessità di un suo aggiornamento, dall’altro. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’unico limite esplicito indicato dalla Costituzione per la sua revisione è quello indicato all’articolo 139, che riguarda la forma repubblicana. Nel corso degli anni, però, la Corte Costituzionale ha più volte ribadito l’esistenza di limiti impliciti come quei valori supremi a cui corrispondono princìpi fondanti (che non sono solo i Princìpi Fondamentali composti dai primi 12 articoli, incluso quindi il diritto al lavoro dell’articolo 4), al pari di altri valori come la sovranità popolare, l’unità e indivisibilità della Repubblica, la laicità dello Stato, l’unità della giurisdizione costituzionale, il diritto alla tutela giurisdizionale in ogni stato e grado di giudizio, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e i diritti inviolabili dell’uomo.

Circa il secondo aspetto, si entra nel merito della Riforma costituzionale, sulla quale si svolgerà il referendum confermativo nei prossimi mesi. Essa ha avuto un iter molto lungo e travagliato: depositato come disegno di legge costituzionale l’8 aprile del 2014, ha visto la fine della seconda lettura esattamente due anni dopo, il 12 aprile 2016, con un numero di sedute, di interventi e di votazioni addirittura maggiore rispetto a quelli della stessa Assemblea Costituente, senza contare gli 82 milioni di emendamenti che ad essa sono stati presentati. La Riforma, denominata “Disposizioni concernenti il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”, è indubbiamente la riforma costituzionale più consistente dal 1948 e va a modificare  44 articoli e abrogarne 2, ma non è certo questa la sede per affrontare l’analisi dettagliata di tutte le modifiche.

Prima di analizzare il rapporto fra il tema del lavoro e la riforma costituzionale, è opportuno concentrarsi su alcuni aspetti della riforma che sono più strettamente correlati a questo argomento: le funzioni del nuovo Senato e la ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni. Sulla composizione e sulle funzioni del nuovo Senato si è sviluppato gran parte del dibattito parlamentare, che ha portato a profonde modifiche rispetto al testo originario presentato dal governo. La prima versione del disegno di legge, infatti, prevedeva che il Senato fosse composto da ventuno senatori di nomina presidenziale, dai Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome, dai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione e di Provincia autonoma e da due consiglieri regionali e due sindaci per ogni Regione. Sulle funzioni era prevista una partecipazione paritaria rispetto alla Camera in un numero molto limitato di leggi.

Il testo finale approvato dalla Camera dei Deputati nell’aprile del 2016 prevede innanzitutto che, secondo il nuovo articolo 57, il Senato sia composto da novantacinque senatori, eletti dai Consigli regionali e dai Consigli delle Province Autonome – di questi novantacinque, settantaquattro eletti in maniera proporzionale fra i membri dei Consigli e ventuno eletti tra i Sindaci, uno per ogni Regione e Provincia Autonoma – e da cinque senatori nominati dal Presidente della Repubblica per altissimi meriti in campo sociale, scientifico, artistico e letterario, per un mandato di sette anni. Dal computo dei cento senatori sono esclusi gli ex Presidenti della Repubblica che fanno (e faranno) parte di diritto, e a vita, del Senato.

Secondo il nuovo articolo 55, inoltre, viene superato il cosiddetto bicameralismo paritario: solo la Camera dei deputati rappresenta la Nazione, è l’unica titolare del rapporto di fiducia e mantiene le funzioni di indirizzo politico, legislativa e di controllo sul Governo. Il Senato della Repubblica, invece, rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica e tra questi e l’Unione Europea, partecipa alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche europee, valuta le politiche pubbliche, esprime pareri sulle nomine governative e verifica l’attuazione delle leggi dello Stato. 

Per quanto riguarda l’articolo 117 della Costituzione, la ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni, la riforma interviene su quanto già modificato nel 2001 con la cosiddetta “Riforma del Titolo V”. La versione del 1948 di questo articolo prevedeva un elenco di materie di competenza delle regioni sulle quali esse potevano legiferare nei limiti dei princìpi fondamentali stabiliti dallo Stato: lo Stato aveva dunque una competenza di tipo generale. Con la revisione del 2001, però, si assistette ad un rovesciamento del sistema delle competenze, tale per cui vengono esplicitate al comma 2 le materie di esclusiva competenza statale, mentre, al comma 3 viene, redatto un elenco di materie di competenza concorrente fra Stato e Regioni, sulle quali l’iniziativa legislativa spetta a queste ultime, previa determinazione dei princìpi fondamentali da parte dello Stato. Al comma 4 viene poi affermato come “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”: in base a questo principio è la potestà legislativa regionale ad essere generale, in quanto residuale. 

Le principali problematiche, di tipo sia interpretativo che applicativo, sorte all’indomani della Riforma del Titolo V si sviluppano principalmente a causa dei conflitti fra Stato e Regioni sulla competenza concorrente, risolti perlopiù con ampi interventi da parte della Corte Costituzionale.

L’aumento di conflitti fra Stato e Regioni è una criticità che è stata sottolineata negli anni sia da diverse forze politiche, sia dalla stessa Corte Costituzionale. Nelle diverse relazioni annuali dei Presidenti della Corte Costituzionale, a partire dal 2002 tutti notano l’incremento di giudizi in via principale, vale a dire quelli che comprendono i conflitti fra Stato e Regioni, dovuto principalmente alla difficoltà interpretativa del nuovo articolo 117, e alla ferrea volontà di Stato e Regioni di voler affermare le proprie prerogative: se lo Stato ha continuato a legiferare come se nulla fosse cambiato, le Regioni hanno iniziato a far valere le loro ragioni anche nelle sedi più opportune, come la Corte Costituzionale. Un dato che può illuminare rispetto all’ammontare in termini quantitativi di questo conflitto, è quello della percentuale di questi giudizi: se fra il 2000 e il 2002 essi si aggiravano fra il 5% e il 7% rispetto al totale delle decisioni della Corte, a partire dal 2003 si è assistito ad un costante aumento che è arrivato fino ad un impressionante 41% nel 2015, con un picco del 47,5% nel 2012.

Con la Riforma del 2016 l’articolo 117 subisce nuovamente delle modifiche profonde in merito alla ripartizione delle materie di competenza fra Stato e Regioni. Rispetto alle precedenti revisioni di questo articolo, realizzate o solo tentate dopo il 2001, per la prima volta vengono eliminate le materie di competenza concorrente, che vengono ripartite fra le competenze esclusive dello Stato e delle Regioni. In questo nuovo schema le Regioni ordinarie hanno quindi un minor ventaglio di materie di competenza, poiché le vecchie competenze concorrenti vengono attribuite per la maggior parte allo Stato ma, al tempo stesso, sulle materie rimaste hanno una potestà legislativa esclusiva. Con il nuovo comma 4 viene inoltre costituzionalizzata la cosiddetta “clausola di supremazia”, già introdotta de facto dalla Corte Costituzionale con la Sentenza 303/2003, in base alla quale, in caso lo richiedano la tutela dell’unità giuridico – economica della Repubblica o dell’interesse nazionale, la legge statale, su proposta del Governo, può intervenire in materie riservate alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni.

Per quanto riguarda il tema del lavoro, con la Riforma del 2016 alcune materie che erano di competenza concorrente tornano alla potestà legislativa esclusiva dello Stato: l’ordinamento delle professioni, la previdenza complementare e integrativa, la tutela e la sicurezza del lavoro e l’istruzione e la formazione professionale limitatamente alle disposizioni generali e comuni. Vengono, inoltre, inserite ex novo fra le competenze esclusive dello Stato le politiche attive del lavoro. Sulla formazione professionale, inoltre, è opportuno sottolineare che questa passa dall’essere di competenza esclusiva delle regioni, secondo quanto stabilito dalla Riforma del 2001, ad essere una competenza concorrente “de facto” nel momento in cui lo Stato ne deve stabilisce le disposizioni generali e comuni. 

A oggi la situazione normativa è inevitabilmente complicata sia in senso verticale, fra i vari livelli normativi, sia in senso orizzontale. Per quanto riguarda il primo aspetto, il conflitto Stato-Regioni a partire dal 2001 ha portato a una serie di problematiche sia in termini di coerenza della normativa prodotta, sia in termini di qualità della legislazione. Il conflitto ha reso anche meno chiare le norme, costringendo ad esempio le imprese a doversi destreggiare fra leggi statali, leggi regionali e, spesso e volentieri, sentenze della Corte. Questa lentezza porta anche un danno economico sia sul piano interno, poiché il conflitto porta via tempo e il ritardo nell’avere una legislazione chiara, che spesso neanche arriva, e non facilita la vita né al lavoratore né al datore di lavoro, sia sul piano esterno perché gli investimenti stranieri non sono attratti da situazioni normative complicate. Per quanto riguarda il secondo aspetto, il senso orizzontale, la questione che si pone è quella della differenza normativa fra le varie Regioni, sulla quale è necessaria una riflessione: come si sposa la necessità di uniformità normativa con il nostro assetto di Stato regionalista? I costituenti dibatterono a lungo sulla Forma di Stato da assegnare alla nascente Repubblica. Non è un caso che questo sia stato il tema dibattuto più a lungo in plenaria, per quasi tre mesi, da maggio a luglio del 1947. Sul tema dell’impianto da dare alla nuova Repubblica e sul ruolo delle Regioni, si possono trovare differenti posizioni in Assemblea Costituente. Se la destra è per ragioni storiche e ideologiche profondamente antiregionalista e i liberali sono allo stesso modo contrari, il Partito Comunista, dopo un’iniziale contrarietà, si manifesta più apertamente regionalista. Accanto all’ipotesi di demandare la questione alla futura assemblea legislativa – che potrebbe comparire nell’enumerazione delle diverse posizioni in seno all’Assemblea–  ulteriori posizionamenti interessarono dall’interno lo stesso fronte regionalista. Tre erano le proposte principali: una forte limitazione del potere regionale, un regionalismo molto forte, al limite del federalismo, e una terza via, a metà strada fra le altre due precedenti, nella quale si distinguevano Regioni a Statuto Ordinario e Speciale. La terza opzione fu quella che prevalse, non a caso, anche grazie alla forte influenza del pensiero sturziano sulla DC, forte anche dell’appoggio comunista, che portò all’approvazione di un progetto profondamente regionalista, seppur con poteri leggermente limitati rispetto allo schema originario previsto dalla Seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione.

Ma cosa ha a che vedere questo con il tema del lavoro? In realtà molto perché l’assetto dello Stato ha una sua inevitabile influenza sull’esercizio dei diritti: il nostro è un sistema regionale, secondo alcuni è al limite del federale, che attribuisce compiti legislativi e amministrativi agli enti territoriali autonomi. 

Nell’ambito dei diritti sociali, visto che l’obiettivo principe degli enti territoriali è quello di erogare servizi, è possibile un trattamento diversificato da Regione a Regione? L’impostazione della Costituzione ci porta a pensare di sì perché l’autonomia regionale giustifica anche un trattamento diversificato. Ma come si concilia questo con il principio di uguaglianza? Con la Riforma del Titolo V è stato stabilito che lo Stato assicura a tutti i cittadini in modo paritario, anche in un sistema regionale, le prestazioni essenziali alla realizzazione dei diritti sociali, come esplicitato dall’art. 117, comma 2, lettera m: spetta allo Stato la legislazione esclusiva su “la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. È quindi lo Stato che deve farsi carico di assicurare il criterio di uniformità per il rispetto dell’articolo 3 della Costituzione. Quando si parla di diritti essenziali, però, ovviamente non vuol dire il “minimo sindacale” ma ciò che è indispensabile al nucleo essenziale del diritto sociale, quindi prestazioni uniformi sul territorio nazionale. L’autonomia regionale può quindi agire in questioni ulteriori a quelle essenziali che per diverse ragioni, principalmente economiche, possono essere presenti in alcuni territori e in altri no.

Sembrerebbe quindi che siamo condannati ad una differenza normativa da Regione a Regione ma ciò è vero fino a un certo punto. Il grande limite della Riforma del Titolo V, a parte aver dato secondo il parere di molti, competenze eccessive alle Regioni, è stato proprio quello di non aver creato un luogo di compensazione fra l’interesse regionale e nazionale, quale dovrebbe essere proprio il Senato come inteso nella Riforma del 2016. Non è un caso che negli anni si sia fortemente rafforzato il potere della Conferenza Stato-Regioni che si è trasformata da luogo di consultazione a luogo di mediazione, con tutti i limiti del caso in termini di trasparenza e pubblicità dei lavori.

In conclusione, con la Riforma del 2016 da un lato le Regioni perdono alcune competenze ma allo stesso tempo acquistano una rappresentanza a livello parlamentare che fino ad ora non hanno mai avuto. A prescindere dall’assetto istituzionale, la grande differenza la faranno i senatori: se sapranno sfruttare il nuovo Senato e l’ impostazione che ne consegue, ad esempio se si riuscirà a uscire dalla logica gruppocentrica tipica del nostro Parlamento, allora il Senato diventerà un luogo di incontro fra interessi diversi e solo così sarà finalmente  possibile trovare la giusta contemperazione fra il diritto all’uguaglianza dei cittadini e il diritto all’autonomia normativa propria delle Regioni.  Se così non sarà, il Senato diventerà semplicemente un nuovo luogo di scontro partitico, ma per migliorare questo aspetto non c’è Riforma costituzionale che tenga.

 

* Michele Uliano     Dottore in Scienza della politica

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