Voterò si al referendum sulla riforma costituzionale. Questa newsletter, in genere, non si schiera sulle faccende politiche e cerca sempre di essere la più obiettiva possibile. Ma in questo caso sarebbe da ipocrita non dichiararsi. Certo, potevamo decidere di sorvolare, di non immischiarci. Il tema referendario, però, non è irrilevante per le materie che teniamo sotto osservazione, a partire da quelle del lavoro. Da qui, le ragioni di questo dossier e di questa dichiarazione di apertura, che coinvolge soltanto il sottoscritto.
Sono per il si, sia per il merito che per le implicazioni sociali, economiche e politiche. Se proprio devo essere preciso, lo sono per il 40% per il primo motivo e per il 60% per le altre ragioni. La disparità di trattamento mi è suggerita non dal peso valoriale delle questioni in campo, ma per come sta evolvendo il dibattito. Infatti, l’aspetto di merito è rilevantissimo – ce ne accorgeremo, se passa il si, nel tempo prossimo – ma è la qualità del dibattito in corso che mi preoccupa di più.
Sul merito, mi appoggio a Cassese: “la legge di riforma costituzionale riguarda quarantasette articoli, ma nella sostanza ne modifica soltanto sei: l’articolo 55 sulla composizione del Parlamento; l’articolo 57 sul Senato; l’articolo 70 sulla funzione legislativa; l’articolo 94 sulla fiducia al Governo; l’articolo 114 sulle Province; l’articolo 117 sulle competenze legislative delle Regioni. Le altre modifiche sono essenzialmente lessicali o consequenziali.” (Le ragioni del si e le ragioni del no, Il sole 24 ore, 25/09/2016).
Semplificare gli iter parlamentari con il superamento del bicameralismo sempre più clamorosamente imperfetto; consentire ai cittadini una partecipazione più attiva con il referendum propositivo; razionalizzare i centri di decisione e di potere, specie nel rapporto Stato – Regioni; sveltire, rivalutare e rendere virtuoso il ruolo del “pubblico” non rispondono soltanto ad esigenze di modernizzazione, ma anche a quelle di contrastare corporativismi, corruzioni, immobilismi.
Per questi motivi, gli articoli modificati o di nuovo conio a me sembrano convincenti, in quanto corrispondono alla ragione per cui sono stati prodotti. La lunga marcia parlamentare (2 anni) che ha portato a questa riforma, aveva una base comune a tutti i partiti e a larga parte dell’opinione pubblica: così com’è, la seconda parte della Costituzione non aiuta l’economia, non è all’altezza dei tempi, non facilita il rapporto tra cittadini e istituzioni.
Ovviamente, si poteva fare di più e meglio (io non sono per l’abolizione delle Province ma delle Regioni, vera fonte di mal governo e di scarsa formazione della classe politica del Paese, ma tant’è). Ciononostante, non vedo, in quegli articoli, né attentati alla democrazia, né squilibri tra i poteri istituzionali.
Quanto alla qualità del dibattito, lo scenario è chiaro: si sa per quale contenuto si dovrebbe votare si, non si sa per quale contenuto alternativo si dovrebbe votare no, a meno che – come avviene in tutti i referendum – gli oppositori si dichiarino apertamente per il mantenimento dello status quo. Ma questo non è a disposizione. Anzi, anche i sostenitori del no sono per riformare la seconda parte della Costituzione, ma ognuno con la propria idea e progetto. Alcuni sinceramente, altri strumentalmente.
Di conseguenza, il si ha un riferimento di merito e quindi si può prescindere dallo schieramento politico che lo sostiene, il no – vista l’eterogeneità propositiva, quando c’è – non prescinde più dallo schieramento politico che diventa prevalente proprio perché nessuno si dichiara per mantenere intonsa questa Costituzione.
Se le cose stanno così, nella piazza del si, si sta soltanto per quella riforma; in quella del no, inevitabilmente ci si trova in compagnia di soggetti assemblati per intenti (vari) e proposte (vaghe) e quindi soltanto in termini negativi. E questo vale anche se la legge elettorale verrà modificata o no, prima del voto referendario. E’ vero che essa potrebbe creare un corto circuito di riduzione degli spazi delle minoranze (ma anche spurie maggioranze di opposti o presunti tali) per cui sarebbe auspicabile una sua correzione. Ma ciò non modifica affatto la valutazione sulla riforma: questa resta e se non passasse difficilmente ne potremo avere un’altra, almeno in questa legislatura; la legge elettorale – in quanto legge ordinaria – può essere più agevolmente mutata.
Infine il si, da me non è optato in ragione di una preoccupazione circa le prospettive. Alcuni, infatti, temono il salto nel vuoto, se dovesse prevalere il no. Sono cresciuto nella cultura del cambiamento. Gli squilibri non sono sempre una maledizione. Anzi, possono portare ad equilibri più avanzati, in termini di benessere per la gente e di solidità per la democrazia. Ma la condizione è sempre stata una: che chi provoca lo squilibrio sia portatore di una idea di nuovo equilibrio. Appunto un’idea. E che sia comprensibile, individuabile, valutabile.
Non mi sembra di essere di fronte ad una situazione di questo genere. E il “facimme ammuina” non si addice al momento che sta attraversando l’Italia.