A leggere il testo del provvedimento sul lavoro a tempo determinato, inviato alle Camere dal Governo, si capisce che la montagna ha partorito il topolino. Innanzitutto, il Governo di centro destra a trazione Meloni ha la stessa opinione dei precedenti Governi di centro destra a trazione Berlusconi sul tempo determinato. Viene considerata una forma di contratto per il lavoro dipendente che non può essere eliminata, ma va condizionata, definendo confini che di volta in volta si allargano o si restringono sulla carta, salvo verificare ex post che dall’inizio del secolo (se si prende a riferimento il Dlgs 368/2001) il ricorso ad esso è cresciuto e ha contribuito a rendere sempre più precario il lavoro.
L’hanno pensato, più o meno, allo stesso modo anche i Governi a trazione PD che si sono alternati in questo ventennio con quelli di centro destra, salvo continuare a dichiarare che si era contrarissimi alla precarietà. Di fronte alle nuove misure, la voce dell’opposizione si è alzata, quella del sindacato si è sentita alta e chiara nelle manifestazioni, ma in sostanza la minestra resta riscaldata.
Se proprio si vuole vedere qualche novità, il Ministro Calderone ce l’ha messa ipotizzando che le parti sociali, a tutti i livelli, possono entrare nel merito delle causali previste nei vari provvedimenti di legge da 20 anni, per apportare modifiche, entro un po’ più di un anno. Se nulla succede sul piano contrattuale e se l’azienda vuole andare oltre i limiti temporali indicati dal provvedimento, può concordare con il singolo lavoratore la deroga, motivandola. Al sindacato si riconosce una possibilità di adattamento alle caratteristiche dell’area di competenza, sempre che le controparti siano consenzienti. In realtà è più evidente che si concede mano libera alle aziende dato che, soltanto in casi rari, la lavoratrice o il lavoratore hanno il coltello dalla parte del manico.
Capisco che è difficile scostarsi dalle proprie convinzioni, ma perseverare diventa alla lunga diabolico. Sempre nel Decreto Lavoro, si reitera lo sgravio temporaneo per l’assunzione a tempo indeterminato dei giovani. Finanche la Confindustria ha detto che sono soldi sprecati. Nessuna azienda assume una persona se non ne ha bisogno, ma se così è, vuole anche dire che se lo può permettere. Eppure la realtà non è senza segnali. L’occupazione cresce, con più contratti a tempo indeterminato da un anno e mezzo, ma i dati degli ultimi due mesi registrano una ripresa del ricorso al tempo determinato (il saldo è di 35000 addetti, rispetto al bimestre precedente che era di 15000). Un po’ è dovuto all’avvio della stagione turistica, un po’ alle prime incertezze sulle prospettive economiche mondiali prima che italiane, dato che è l’export italiano che sta andando alla grande, rispetto alla domanda interna.
L’andamento del lavoro a tempo determinato è un indice sensibile; dal punto di vista aziendale, consente di gestire meglio le variabilità del mercato, provoca meno fastidi sindacali, fa frequentare di meno le aule dei tribunali. I più deboli sono i destinatari di questa situazione. Di gran lunga, sono giovani, donne, meno professionalizzati.
Di conseguenza, il messaggio mandato dal Governo in carica a questi che non sono quattro gatti è: arrangiatevi! Con in più, sia l’aggravante di dare il via libera ai vauches, anche se limitati ai settori del turismo e delle terme, sia la beffa di volerli prolifici, occupate al 100%, colti senza istruzione, dato che alla scuola sono state sottratte risorse finanziarie.
Ma anche le forze di sinistra e il sindacato, che hanno più a cuore il problema non si sono inoltrati in una via alternativa praticabile. Perchè i giovani dovrebbero ascoltare e aderire a chi non fa proposte nuove, visto che le vecchie sono state fallimentari? Se si conviene che il lavoro a tempo determinato non è proibito (esiste ovunque c’è una legislazione del lavoro degna di questo nome), c’è un solo modo per renderlo socialmente accettabile, in qualunque modo esso è chiamato (da quello vero e proprio, ai vaucher, alla collaborazione, alle finte partite IVA, ecc.). Renderlo più dignitoso, non far intendere che è un lavoro di serie B, regolamentarlo con maggiore rigore. Bisognerebbe rafforzare la loro tutela sociale (mutui per la casa, sgravi e servizi per la natalità, formazione incentiva). Ma soprattutto intervenire sul salario. Posto che il costo per l’azienda deve essere, a parità di professione, quello contrattuale, per chi lavora a tempo determinato andrebbe previsto un costo in più a risarcimento del grande vantaggio che esso ha rispetto al lavoro a tempo indeterminato. Questo ha tutele consolidate, a partire da quella relativa al licenziamento. A chi ha un lavoro a tempo determinato, un sms gli ricorda che il suo contratto è scaduto e spesso senza l’aggiunta dei ringraziamenti. Basterebbero due righe di legge che sanciscano questo diritto per far sentire – a chi è costretto ad accettare che un giorno già prestabilito sarà salutato, se gli va bene – che finalmente è stato preso in considerazione. Sarà poi la contrattazione collettiva a stabilire quanto di questo aumento va a salario e quanto a previdenza, che sarebbe bene che fosse tenuta da conto per evitare che, per effetto del sistema contributivo, intere generazioni siano candidate a pensioni poco più alte di quella sociale. Un intervento di questo genere metterebbe le aziende nella condizione di scegliere tra una assunzione più tutelata ma meno costosa e una meno tutelata e più costosa. Consentirebbe alle lavoratrici e ai lavoratori di fare altrettanto.
Nessuno è in grado di dire a priori se in questo modo si sgonfia il ricorso al lavoro a tempo determinato. Ma ciascuno può convenire che può servire a ricomporre il mercato del lavoro. La sua frammentazione dovrebbe essere combattuta da tutti, in coerenza con il dettato costituzionale. Ma è lampante che tocca ai riformisti piuttosto che ai conservatori agire in questa direzione. In assenza di una iniziativa insistente su questo fronte, la deriva corporativa della società italiana è dietro l’angolo. Allora sì, che ci sarà chi ringrazierà con applauso la Signora Ministro che ha cementato una frattura “in seno al popolo”.
fg