Stiamo assistendo nel Mondo Occidentale, ma non solo, a gravi fenomeni (qualcuno, purtroppo ,anche violento), di neo antisemitismo. Quali sono i suoi volti? Ne parliamo con Andrea Molle, Professore Associato al Department of Political Science eDirettore del Master in International Studies alla Chapam University (USA).
Professore, dopo il 7 ottobre, l’attacco terroristico di Hamas contro Israele, con la conseguente reazione di Israele, stiamo assistendo nel Mondo Occidentale, ma non soĺo, a gravi fenomeni (qualcuno, purtroppo, anche violento), di neoantisemitismo. Le chiedo: è corretta questa locuzione?
Direi di sì; anche se non credo sia necessariamente un fenomeno nuovo, quanto piuttosto un ritorno alla normalizzazione dell’antisemitismo che abbiamo visto all’inizio del secolo scorso. Anzi, potrei addirittura azzardarmi a suggerire che stiamo assistendo alla glorificazione morale del pregiudizio contro gli ebrei. Ciò che abbiamo visto, nelle piazze pro-palestinesi come in altri contesti, è palesemente il frutto di un livore che cova da anni e certamente non la sola conseguenza degli eventi di cronaca. È anche vero, tuttavia, che per diffusione, forme e contenuti l’antisemitismo di oggi non è paragonabile a nulla cui abbiamo assistito in precedenza.
Quali sono i suoi molteplici volti?
L’immagine classica dell’antisemitismo militante è da sempre stata associata con quella dell’estremista di destra, il neonazista, lo skinhead. Nell’immaginario comune questo fenomeno politico di nicchia è il volto più evidente dell’antisemitismo legato alla tragedia dell’Olocausto. Esiste poi un antisemitismo islamista, che purtroppo è sempre più inseparabile dal fallimento dei processi di integrazione dei flussi migratori. Da diversi anni la ricerca scientifica mostra come le seconde e terze generazioni di immigrati, non pienamente integrati, siano altamente suscettibili alla radicalizzazione. È questo il caso, ad esempio, della Francia, laddove una situazione estremamente esplosiva impone alla presidenza di Macron di muoversi con estrema cautela, ed estrema ambiguità, rispetto all’attuale conflitto in Medioriente. Ma anche il Regno Unito sembra essere in una situazione molto precaria rispetto al contenimento dell’Islamismo militante. Naturalmente è necessario precisare che l’immigrazione, in sé e per sé, non è un indicatore di antisemitismo. Tuttavia, sebbene l’azione di entrambi questi movimenti non debba essere sottovalutata, il volto che più temo è oggi quello dei cittadini comuni. Un antisemitismo che è passato inosservato per troppo tempo, ma che oggi esplode in tutta la sua potenza. Un antisemitismo quotidiano fatto di atti semplici che non è solo contro-cultura, come nel caso dell’estrema destra, o manifesto politico, come nel caso islamista, ma rischia di diventare una vera e propria cultura dominante, una forma di socializzazione, e purtroppo anche un canale di normalizzazione di neonazismo e islamismo.
Chi sono i soggetti permeabili?
Direi che si tratta di un fenomeno generazionale. Le statistiche più recenti mostrano infatti una forte correlazione tra età e tendenze antisemite, che si manifestano ad esempio come supporto ad Hamas o nella negazione degli eventi del 7 ottobre. I Millennial e soprattutto la Gen-Z sono i più inclini a manifestare pubblicamente la propria giudeofobia. Un altro elemento di interesse è l’andamento dell’accettazione di troppi complottisti antisemiti, come l’esistenza di una lobby ebraica o l’identificazione dell’ebreo come caso esemplare di “suprematista bianco”, che sembra essere correlato invece con l’adesione a precise posizioni politiche sia nell’estrema destra che nell’estrema sinistra. In questo caso la correlazione con l’età sembra essere di tipo spurio, in quanto è ragionevole pensare a queste posizioni politiche, ideologiche, come più comuni nelle fasce d’età più giovani per ragioni opportunistiche. Non va infine sottovalutata la correlazione tra antisemitismo e analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di comprendere informazioni complesse. In questo caso è evidente come l’antisemitismo operi come un conveniente capro espiatorio.
Cosa lo differenzia da quello del passato?
A mio avviso, la differenza sta nella sua normalizzazione. Questa è evidente in primo luogo nell’alto livello di accettazione sociale, o di razionalizzazione che spesso presume la negazione dell’esistenza di un problema antisemitismo sia a livello individuale che collettivo. Sembra quasi che per la cultura di massa, soprattutto a sinistra, l’antisemitismo sia un fenomeno del passato legato a un’immagine del popolo ebraico vittima del nazismo e cristallizzata nel tempo come feticcio antifascista. Questa negazione dell’antisemitismo come fenomeno contemporaneo, che include anche il recente tentativo di rendere gli ebrei minoranza trascurabile di un ridefinito mondo semita arabo-centrico, mi spaventa molto perché si traduce inevitabilmente nella creazione di una frattura tra passato e presente che nega agli ebrei il diritto di esistere. Ma la normalizzazione è anche evidente nell’azione deliberata di socializzazione all’antisemitismo delle nuove generazioni e nel tentativo di costruire una narrazione postcoloniale intersezionalista che paradossalmente priva gli ebrei del diritto a definire cosa sia l’antisemitismo, o suggerisce tout court che quest’ultimo sia un’arma nelle mani di una fantomatica “lobby ebraica”. Questa nuova strategia è estremamente preoccupante perché sembra apparentemente riposare su basi intellettuali. La etichetterei come una forma marxista di “razzismo scientifico postmodernista”.
Guardiamo un poco più in profondità: tra I luoghi di questo neoantisemitismo ci sono realtà accademiche importanti . Ovviamente non si vuole generalizzare. Però è un fronte caldo, è così?
Purtroppo sì. Lo abbiamo visto con il fenomeno della rimozione dei poster delle vittime israeliane o con la negazione della natura terroristica di Hamas. Prima facevo inoltre riferimento al trend della weaponization of antisemitism. Da tempo alcune università, tra le quali il famoso MIT, hanno avviato cicli di eventi formativi per studenti che cercano di imporre l’idea che si debba evitare di parlare di antisemitismo legato a eventi di cronaca, in quanto il concetto sarebbe stato trasformato dal governo israeliano in uno strumento di information warfare. La continua polemica sull’interpretazione, a mio avviso corretta, del concetto di antisionismo come metafora dell’antisemitismo è anch’essa indicativa del tentativo dell’accademia di razionalizzare e legittimare l’ostilità verso gli ebrei. È inoltre evidente l’esistenza di un doppio standard tra antisionismo e anti-islamismo, laddove ogni critica all’ideologia politica islamista che caratterizza movimenti come Hamas, o ISIS, e paesi ostili come l’Iran, viene sempre zittita con l’accusa di essere islamofoba, mentre azioni e linguaggi che prendono palesemente di mira gli ebrei in quanto tali vengono quasi sempre rubricati sotto la voce della legittima critica allo Stato di Israele.
La Rete è certamente un altro fronte. È così ?
Certamente. La rete rimane uno dei fattori moltiplicatori dell’antisemitismo sia tramite il ruolo di piattaforma di disseminazione, che per quello di creazione di contenuti volti a manipolare l’opinione pubblica. Da diverso tempo analisti e ricercatori mettono in guardia contro i meccanismi di auto-radicalizzazione che sono facilitati dalla rete e soprattuto dai social media che si configurano come vere e proprie ecochambers per realtà alternative. Per questo l’Unione Europea in questi giorni sta discutendo sulla necessità di arrivare a un monitoraggio più stretto dei contenuti e delle comunicazioni in rete. Naturalmente questo dibattito investe temi più ampi legati alla libertà di espressione, al tema dell’eccesso di controllo governativo e in generale alla validità degli approcci securitari.
Pensa che questi fenomeni di neoantisemitismo rientrino in una strategia più generale di guerra ibrida all’Occidente?
Ne sono assolutamente convinto. Vorrei ricordare, a questo proposito, che le indagini sull’ondata di scritte antisemite verificatasi in Francia stanno portando alla luce il ruolo di diversi cittadini russi e di una fitta rete di bot, molti dei quali controllati dalla ben nota PMC russa Wagner Group. Queste attività non sono casuali e si spiegano nell’interesse di Mosca alla destabilizzazione del medioriente, ma anche in rapporto alla crisi ucraina e più in generale nell’ottica di un’ampia attività di attacco multimodale volto a destabilizzare le società occidentali.
Senza cadere nel complottismo, vi sono, secondo lei, finanziatori che alimentano questi fenomeni?
Quanto discusso fino ad ora ci porta alla necessità di dover affrontare questo fenomeno nel quadro più ampio delle difficili relazioni dell’Occidente con il mondo arabo. Un recente rapporto dell’Institute for the Study of Global Antisemitsm & Policy, pubblicato dopo gli eventi del 7 ottobre, mette in luce un fenomeno molto preoccupante che richiederebbe, anche in Italia, molta più attenzione dal mondo dell’intelligence: i finanziamenti provenienti da attori ostili nel mondo arabo. Il Qatar, ad esempio, ha trasferito negli anni diversi miliardi di dollari, tramite la Qatar Foundation, a diversi atenei americani. Gran parte di questi fondi non sono stati dichiarati al Dipartimento dell’Istruzione degli Stati Uniti in violazione delle norme sulla trasparenza finanziaria. Tra questi il rapporto menziona la Texas A&M, Georgetown, Cornell, Carnegie Mellon, Northwestern e alcuni atenei inglesi e francesi. ISGAP conferma inoltre una correlazione tra finanziamenti e incidenti antisemiti emersa anche in molti altri studi.
Ultima domanda: dal suo punto di vista la società italiana ha gli anticorpi forti per respingere questo antisemitismo?
Da un lato sono abbastanza pessimista, perché il problema dell’antisemitismo è fondamentalmente legato al declino intellettuale, alla dissonanza cognitiva, e all’aumento della polarizzazione sociale presenti nel nostro paese. D’altra parte vorrei però essere ottimista e considerare anche come questo fenomeno sia ancora potenzialmente controllabile. Prendiamo, ad esempio, la vergognosa lettera firmata da più di 4.000 docenti universitari per chiedere di interrompere ogni tipo di collaborazione con istituzioni e colleghi israeliani. La lettera è incommentabile sia per obiettivi che per contenuti, ma sicuramente il numero dei firmatari ha fatto scalpore. Ma se andiamo a vedere, si tratta di un numero che rappresenta poco più del 6.5% del totale dei docenti universitari italiani e per di più in gran parte proveniente da istituzioni assolutamente irrilevanti sotto il profilo internazionale della ricerca. Insomma, nonostante il quadro sia profondamente inquietante c’è ancora la possibilità di invertire la tendenza isolando l’antisemitismo, bonificando le istutuzioni dove prospera e viene legittimato, e creare le condizioni per sconfiggerlo. Questo naturalmente solo se c’è la volontà politica di farlo.
Dal sito: www.rainews.it