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Le disuguaglianze si battono con politiche dei redditi europee

Nei paesi avanzati, la disuguaglianza ha raggiunto livelli che possiamo definire immorali. Nel 2015, secondo l’ultimo Rapporto della Banca Mondiale, 62 persone disponevano della stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone, cioè la parte più povera del mondo. Barack Obama ha definito la disuguaglianza dei redditi la vera sfida dei nostri tempi. La disuguaglianza può essere definita come la combinazione della crescita di redditi elevati (o al top) e della stagnazione dei redditi delle classi medio-basse (o al bottom distribuzione dei redditi). Naturalmente parliamo di disuguaglianze all’interno dei paesi e non fra paesi. Nei paesi avanzati, in primis negli USA e in Europa, le middle and lower classes sono, da molti anni, i veri “perdenti” della globalizzazione. La disuguaglianza è di norma condannata sotto il profilo etico e sociale. Ma delle negative ricadute macroeconomiche non se ne parla molto. In questi giorni, pronubo Trump con la sua vittoria, si discute delle implicazioni politiche di persistenti disuguaglianze. Le classi medio-basse – nella loro componente bianca – vengono ritenute responsabili del trionfo del tycoon newyorkese. Ora in Europa si temono le crescenti distanze fra ricchi e poveri, perché pericolose in vista delle tornate elettorali in importanti Stati membri dell’Unione Europea.

2.Per ottenere la riduzione delle disuguaglianze, lo Stato potrebbe ridurre le imposte sui ceti medi e/o aumentare i trasferimenti a loro favore. Questa politica redistributiva, attuata con il bilancio pubblico, va però incontro ad alcuni inconvenienti. Per quanto riguarda le imposte – perché esse siano efficaci – richiederebbero un innalzamento significativo delle aliquote fiscali applicate ai redditi al top della distribuzione: Paul Atkinson, il maggiore esperto di disuguaglianze in Europa, riferendosi al caso inglese, un paese in cui più insostenibili sono le distanze reddituali, suggerisce l’introduzione di un’aliquota sull’ imposta personale massima pari al 65%, rispetto al 45% attualmente  applicata. Un aumento politicamente inaccettabile. Anche l’Italia sarebbe nella stessa situazione a giudicare dagli indici della disuguaglianza. In secondo luogo, operando con i trasferimenti e le imposte, la politica di bilancio ha ricadute che favoriscono operatori non identificabili a priori e ciò dà luogo ad una crescita debole, perché essi non pongono in essere comportamenti idonei a rendere concreti i benefici.  Infine, le misure fiscali adottate debbono essere coordinate a livello comunitario, senza contare gli ostacoli alle  politiche redistributive rappresentati dagli elevati livelli di deficit e debiti.       

3. Per ridurre le disuguaglianze servirebbero aumenti diffusi delle retribuzioni e dei salari, cioè dei ceti impiegatizi ed operai, più in generale dei ceti medio- bassi della distribuzione del reddito. Un aumento significativo – idoneo a ridurre gradualmente le disuguaglianze – consentirebbe l’innesco di un meccanismo effettivo di crescita economica inclusiva (una crescita è definita inclusiva se si associa ad una riduzione delle disuguaglianze). Ciò per il semplice motivo che classi medio-basse hanno una propensione al consumo più elevata di quella delle classi ricche. Quindi lo spostamento del reddito a favore delle classi medie-basse spingono i consumi e, con essi, quindi il PIL. La crescita economica sarebbe “inclusiva” di cui tutti beneficerebbero, con il passare del tempo. Infatti, gli imprenditori privati dovrebbero accettare una riduzione dei profitti, ma con il tempo, essi potrebbero contare sui benefici legati alle maggiori vendite. Secondo uno studio dell’FMI, se la quota del reddito del 20 per cento più povero aumenta, nel medio periodo, il PIL cresce; se invece ad aumentare è la classe di reddito del 80 per cento (cioè i percettori di redditi al top) il PIL diminuisce. Con buona pace della politica del c.d. trickle-down secondo la quale benefici fiscali a favore dei ricchi favorirebbero anche i ceti inferiori, grazie allo “sgocciolamento” dei miglioramenti del ceto soprastante.

4. Però, la scelta di aumentare i salari non potrebbe essere adottata in un unico paese. Infatti, la prospettiva sarebbe quella di aumenti dannosi per la competitività soprattutto se superiori alla produttività e i sindacati nazionali si asterrebbero dal richiederli per timore che gli imprenditori potrebbero trasferirsi in un diverso paese. Inserito a livello di Unione Monetaria Europea, l’aumento delle retribuzioni potrebbe invece essere opportunamente coordinato nell’ambito della Macroeconomic Imbalances Procedure, o MIP. Questo inserimento potrebbe essere foriero di positive implicazioni.  La MIP andrebbe opportunamente integrata con disposizioni automatiche di crescita salariale nei paesi con avanzi strutturali  delle partite correnti e cioè Germania, Olanda, Austria, Finlandia ecc. In questi paesi dovrebbero aumentare retribuzioni e salari per “spendere” il loro surplus corrente attraverso l’aumento della loro domande interne. I paesi con disavanzi strutturali correnti con l’estero potrebbero sfruttare la spinta impressa alla spesa domestica da quelli in avanzo e ciò consentirebbe loro di aumentare a loro volta i salari. Il vantaggio della proposta sarebbe duplice: a) attenuerebbe la spinta dei perdenti della globalizzazione, fattore di instabilità e di evoluzione politica dagli esisti imprevedibili; b) prevedendo, in prima battuta, un beneficio soprattutto interno nei paesi forti, non avrebbe contro tutti coloro che temono un rilancio dell’economia fatto soprattutto a beneficio dei paesi “indisciplinati e “svogliati”.      

 

  (*) Professore di Economia Internazionale e Politica Economica dell’ Università della Tuscia.

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