Forse è esagerato parlare di uno sciopero degli investimenti ma è certo che una delle contraddizioni chiave del rallentato sviluppo italiano risiede nella metà delle imprese che presenta redditività in crescita e un ristagno invece, delle attività di acquisto di macchinari, attrezzature e tecnologie. Faccio tanti soldi ma me li tengo, la filosofia del momento.
Gli imprenditori italiani vivono indubbiamente una stagione difficile. All’interno, le aziende hanno imparato alla grande a gestire una sorta di ristrutturazione coordinata e continuativa dei fattori produttivi ma appena guardano fuori vedono solo nebbia. E frenano. “Incertezza” è il vocabolo ricorrente e si parla della mancanza di una bussola sull’andamento dell’economia mondiale ma anche di una sorta di angoscia geopolitica legata all’ evoluzione dei conflitti che scuotono Europa e Medio oriente.
Se poi, come e giusto, aggiungiamo che il costo del denaro resta alto e I’ allentamento della stretta monetaria è rinviato alla seconda metà dell’anno e se, subito dopo, poniamo mente ai ritardi del Pnrr per i riflessi negativi che hanno sugli investimenti privati, il quadro è completo.
Allora non sarà sciopero ma pavidità, pigrizia, attesa, mancanza di coraggio – il lessico offre diverse soluzioni – però la deludente verità e che gli investimenti latitano e senza di essi siamo condannati a finire inevitabilmente nella trappola della bassa crescita e dello zero virgola. Anche nei territori in genere più reattivi come il nord-est si investe poco, c’è in generale in tutti i territori un forte scetticismo sul green deal appena temperato dalla grande attesa per il nuovo provvedimento Transizione 5.0 che dovrebbe mettere a disposizione delle imprese risorse aggiuntive per 6,3 miliardi con la speranza che, almeno in parte, generi quegli effetti positivi che erano stati propri del fortunato predecessore, passato all’onore delle cronache con il nome di Industria 4.0.
Per il resto si aspetta che il Pnrr cominci a far sentire i suoi effetti e che, per limitarsi a un esempio, la spesa del principale beneficiario (le Ferrovie) sgoccioli sui privati. Tutte queste riflesioni sugli investimenti – peccato che nella corsa alla presidenza della Confindustria non se ne parli – sono stimolate dai dati sulla produzione industriale di gennaio sfornati ieri dal istat. Che hanno spiazzato ancora una volta le previsioni, ma in quest’occasione in peggio. Ci si aspettava “una stabilizzazione dell’ industria” e invece è arrivata se non una botta, quasi.
A gennaio la produzione industriale è scesa mese su mese di -12% e il calo su base annua è arrivato a quota 3,4 per cento. A determinare I’ inattesa (almeno nelle proporzioni) flessione sono stati sia i beni capitali (3.6%) sia i consumi (2%). Meno macchinari, meno attività dunque e, insieme, meno vendite al dettaglio. L’energia è l’unica componente segnalata in crescita su base annua. Tutti i settori manifatturieri segnano il passo con il farmaceutico che mostra addirittura una contrazione a due cifre (-15,2%) e la chimica che continua la sua corsa in negativo, Il legno, alla vigilia dell’importante Salone del Mobile, fa segnare -8% e la produzione dei mezzi di trasporto cala del 33 per cento, a testimonianza quest’ultima che il ciclo delle immatricolazioni di vetture, che pure aveva animato il mercato, ha perso la sua spinta propulsiva.
La verità è dunque che se fino a dicembre del 23 l’ economia reale ha vissuto sostanzialmente dentro un microcosmo che potremmo definire come “il Pil delle costruzioni” per gli effetti dovuti al Superbonus, con I’anno nuovo per riprendere a crescere avremmo bisogno di un nuovo format Ma non c’è. Anzi rischiamo che si generi un testacoda di questo tipo: faccio utili ma non investo perchè c’è incertezza ma anche perchè i consumi stagnanti non mi premierebbero. I dati di febbraio sulle vendite al dettaglio (0,3%) ci spiegano infatti che i contraccolpi della perdita di potere d’acquisto del 2023 non si sono affatto assorbiti, anzi.
E’ vero che c’è stata una leggera ripresa delle retribuzioni, si sono rinnovati altri contratti di categoria (ultimo la concia) e qualche significativa intesa aziendale (Chiesi per esempio) ma prima che gli effetti di questi aumenti modifichino le decisioni delle famiglie e quindi si trasformino in spesa ci vuole del tempo. La disdetta è che aspettando queste discontinuità e attendendo, di converso, anche le decisioni di Francoforte diventa evidente come I’economia reale sia destinata a vivere un semestre non particolarmente felice.
Non ci aiuta, certo, l’impasse della Germania, nostro principale mercato di sbocco, che non sappiamo quando riuscirà a uscire dalla sua crisi, quando i colossi teutonici dell’automotive, dell’acciaio e della chimica riusciranno a riparare i rispettivi modelli di business. Romano Prodi sembra l’ultimo inguaribile ottimista sulle virtù dei nostri maggiori partner. In questa zona d’ ombra I’ orientamento degli analisti va di conseguenza in direzione di una flessione della produzione industriale dell’intero primo trimestre stimata nello 0,9%, pur scontando un possibile rimbalzo a febbraio.
I segnali delle survey riferite al mese scorso sono contraddittori; mentre infatti I’indice degli acquisti manifatturieri è salito seppur lievemente, la fiducia delle imprese industriali misurata dall’Istat è tornata calare. E la persistenza della debolezza del commercio mondiale, accentuata dalle difficolta del traffico navale di Suez, fa dire che per tutto il primo semestre difficilmente l’industria fornirà un contributo positivo all’attività economica.
Ne potrebbe soffrire già il pil del primo trimestre 2024 che dovrebbe salire addirittura di un solo decimale a patto però che la spinta venga in qualche modo dai servizi, visto che I’industria e le costruzioni sono in frenata. Per ritrovare un pil che viaggi almeno a un ritmo relativamente più sostenuto bisognerà aspettare almeno il terzo trimestre e comunque le previsioni per l’intero anno non vanno oltre lo 0,7 per cento. Di più il convento Italia, senza investimenti, non sembra offrire.
*da Il Foglio, 21/03/2024