A sei anni dall’entrata in vigore della legge Gelmini, il precariato nelle Università ha assunto proporzioni drammatiche. La messa ad esaurimento della figura del ricercatore universitario a tempo indeterminato (RTI) e la sostituzione con figure a tempo determinato, secondo il motto che “un po’ di precarietà fa bene all’università!”, ha prodotto effetti deleteri per il sistema e per i giovani.
Il reclutamento prima e dopo la legge 240/2010
Prima della legge 240/2010, una persona interessata alla carriera universitaria muoveva i primi passi nella ricerca attraverso il dottorato, dopo il quale affrontava un periodo più o meno lungo come precario, fino ad arrivare ad un ingresso in ruolo come ricercatore a tempo indeterminato.
Con l’approvazione della legge Gelmini, dopo il dottorato, una persona interessata ad una carriera universitaria trova davanti a sé tre distinte figure di ricercatore:
– Assegnista di ricerca, ruolo che può essere svolto al massimo per 4 anni, successivamente incrementati a 6.
– Ricercatore a tempo determinato di tipo “a” (RTDa), della durata di 3 anni, rinnovabile per altri 2.
– Ricercatore a tempo determinato di tipo “b” (RTDb), 3 anni non rinnovabile.
Delle tre figure, quella degli assegnisti di ricerca è la più sfortunata. Il loro contratto viene in genere rinnovato di anno in anno e le tutele sociali sono pressoché assenti.
Le altre due figure, all’apparenza simili, sono nei fatti estremamente diverse:
– Il ricercatore di tipo “b” che, durante il triennio di servizio, ottiene l’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), alla scadenza entra in ruolo come associato (previa valutazione positiva dal Dipartimento di afferenza).
– Il ricercatore di tipo “a”, a prescindere dal suo valore sul piano scientifico e dal possesso di ASN, finito il contratto, va a casa.
In due parole, sul piano di mansioni e doveri RTDa e RTDb sono identici, ma solo per gli RTDb è prevista una tenure track che permette l’inquadramento in ruolo.
Per la Legge 240, inoltre, i precari sono anche “ad orologeria”: un singolo ricercatore non può accumulare più di 12 anni tra contratti da assegnista, RTDa, RTDb; superata questa soglia senza riuscire a ottenere un ingresso in ruolo, si è letteralmente “sbattuti” fuori dal sistema. Si tratta di un vincolo che nei prossimi anni si farà sentire.
Ad una lettura superficiale, il meccanismo di reclutamento previsto dalla legge Gelmini sembrerebbe vantaggioso per un giovane ricercatore, il quale avrebbe la possibilità di entrare in ruolo come associato dopo “soli” 9 anni dalla laurea. Si tratta di una previsione ottimistica e irreale che ha contribuito a generare antipatia nei confronti degli RTDb, accusati di avere corsie “privilegiate” per il passaggio a Professore Associato e oggetto di una silenziosa guerra all’ultima ruota del carro dentro i Dipartimenti. L’analisi dei dati sull’evoluzione del personale ricercatore universitario negli ultimi otto anni mostra come i meccanismi di reclutamento della legge Gelmini siano stati tutt’altro che vantaggiosi per i giovani ricercatori precari.
L’evoluzione, o meglio l’involuzione, del personale delle Università
La tabella 1 riporta la numerosità del personale delle università per categorie; la figura 1 raggruppa le tipologie in personale “di ruolo” (RTI, associati, ordinari) e non “di ruolo” (RTDm,a,b). Si osserva che il personale di ruolo continua a diminuire; tale diminuzione è solo parzialmente compensata dall’ingresso nel sistema di RTD.
Quest’analisi non considera il peso degli assegnisti di ricerca, per i quali i dati sono più frammentati. A fine dicembre 2016 risultavano in essere poco meno di 13.000 assegni di ricerca, ma si può stimare che il numero di soggetti coinvolti arrivi alle 20.000 unità. La sproporzione tra assegni di ricerca e RTD è facilmente spiegabile: un assegno non impegna punti organico e costa la metà di un RTDa.
Sommando agli assegnisti, i cosiddetti “invisibili della ricerca” (titolari di contratti di docenza, collaboratori a progetto…), il numero dei ricercatori precari nelle università italiane arriva a oltre 40.000 unità, un dato allarmante se rapportato alle esigue posizioni di RTDb bandite ad oggi (al 2016 soltanto 1809), che rappresentano per la Gelmini il principale mezzo per la stabilizzazione.
Lo scarso numero di RTDb testimonia che questa figura non è molto “amata”. Programmare l’ingresso di un RTDb comporta un significativo investimento in termini di punti organico (0.7) e di budget; con lo stesso dispendio di p.o. si garantisce, ad esempio, il passaggio di 3.5 RTI ad associato. Per questo le politiche degli Atenei sono state spesso orientate a favorire progressioni di carriera piuttosto che nuove assunzioni, laddove era possibile. Lungi dall’ottenere una corsia preferenziale per PA, nella competizione per le risorse, i RTD sono usciti sconfitti. Soltanto il piano straordinario per RTDb del 2016, che ha previsto risorse dedicate, ha permesso di incrementare queste posizioni.
In conclusione l’analisi dei dati mostra il drammatico fallimento della legge Gelmini: il personale di ruolo delle università è diminuito di oltre 12.000 unità negli ultimi 8 anni, a fronte di meno di 2.000 ingressi in tenure track.
Cosa fare nel breve periodo?
Per evitare la desertificazione delle università è necessario avviare al più presto un nuovo e significativo piano di reclutamento di RTDb, l’unica figura che, per la legge attuale, permette la stabilizzazione e l’ingresso in ruolo dei tanti precari che stanno, con il loro impegno, contribuendo in modo significativo all’esistenza stessa delle università. Servono almeno 4000 posti all’anno per i prossimi 5 anni, in modo da riportare la numerosità del corpo docenti allo stesso livello del 2008.
Cosa modificare nel medio periodo?
È necessario che venga fatta una chiara distinzione tra reclutamento e progressioni di carriera. Il numero esiguo di figure con tenure track bandite finora testimonia l’incapacità degli atenei italiani di progettare il proprio futuro: i pochi punti organico a disposizione sono stati spesi negli ultimi anni per le progressioni di carriera, e non per la stabilizzazione dei giovani ricercatori.
Se si vuole continuare ad avere una struttura con due sole fasce, professore associato e ordinario, è necessario ripensare completamente alle figure pre-ruolo, prevedendone solo due:
– Ricercatore a Contratto (RC), che sostituirebbe i limiti legati all’attuale giungla di assegni, borse e contratti di ricerca. Il RC dovrebbe esser adeguatamente remunerato, godere di tutte le tutele dei lavoratori ed occuparsi quasi esclusivamente di ricerca.
– Ricercatore con Tenure Track (RTT) che sostituirebbe gli attuali RTDa e RTDb. Tale figura potrebbe avere una durata di 6 anni, in una formula 3+3: dopo i primi 3 anni l’attività di ricerca svolta viene valutata internamente dal dipartimento, il quale verifica il raggiungimento degli obiettivi preposti. In caso positivo, il ricercatore continua la sua attività per ulteriori 3 anni e, se in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale, entra in ruolo come professore associato. Il periodo di 6 anni è adeguato per raggiungere la maturità scientifica; inoltre con una figura unica si evitano i binari morti che tanti RTDa hanno trovato al termine del loro contratto.
Due distinte figure pre-ruolo sono necessarie per venir incontro alle variegate esigenze del mondo della ricerca; ad esempio, non avrebbe senso reclutare delle figure con tenure track per la partecipazione ad un progetto di ricerca.
È poi indispensabile prevedere opportune norme transitorie per tutelare coloro che attualmente sono inquadrati nelle attuali figure precarie, ed affiancare al già citato piano di reclutamento di RTDb (o della nuova figura di RTT) un nuovo piano per l’avanzamento di carriera dei tanti RTI e professori associati meritevoli.
Una versione più dettagliata del presente documento è disponibile online sul sito ARTeD.