“Generazione senza lavoro” (“Generation Jobless”) è l’espressione che il settimanale The Economist ha coniato per descrivere l’impressionante cifra di persone disoccupate ed inattive che si registra nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni, dove l’Italia, assieme a Spagna e Grecia, rappresentano purtroppo l’esempio più eclatante.
Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) a settembre, infatti, registra nel nostro Paese un altro record, salendo al 40,4%, in aumento di 0,2 punti percentuali su agosto e di 4,4 su base annua. Lo rileva l’Istat ed è il valore più alto mai registrato da quando esistono le rilevazioni mensili e trimestrali. La disoccupazione «cresce perché cala l’occupazione giovanile, diminuisce la percentuale di giovani occupati, aumenta l’inattività tra i giovani», hanno sottolineato i tecnici dell’Istat.
Il tasso di occupazione giovanile risulta pari ad appena il 16,1%, che significa che meno di due giovani su dieci lavorano, percentuale tra l’altro in diminuzione di 0,5 punti rispetto al mese precedente e di 2,1 punti rispetto allo stesso periodo del 2012.
Tabella 1: tassi di occupazione, disoccupazione, inattività e incidenza dei giovani disoccupati (15-24 anni) sulla popolazione complessiva (settembre 2013, dati destagionalizzati)
Fonte: Istat, Occupati e disoccupati, settembre 2013
Il numero di giovani inattivi, inoltre, è pari a 4 milioni 371 mila, in aumento dell’1,5% nel confronto congiunturale (+64 mila) e dell’1,2% su base annua (+54 mila). Il tasso di inattività dei giovani tra i 15 e 24 anni raggiunge il 73%, +0,7% in un mese e +1,5% nei dodici mesi), percentuale che chiaramente comprende anche tutti gli studenti.
Il record della disoccupazione giovanile in Italia viene confermato anche da Eurostat, che ha diffuso contestualmente all’Istat i dati di settembre: peggio di noi fa solo la Spagna con il 56,5%. In generale, nell’Eurozona la disoccupazione giovanile a settembre 2013 è arrivata al 24,1%. La percentuale più bassa si registra in Germania (7,7%) e in Austria (8,6%).
Figura 1: confronto tra tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) in Italia e in Eurozona (valori percentuali)
Fonte: Eurostat, newsrelease euroindicators
Tutti i dati sopra indicati sembrano quindi confermare che servono azioni urgenti a sostegno dell’occupazione giovanile, ma purtroppo non c’è ancora unità di intenti sulla strada da percorrere, che appare ancora incerta e tortuosa. Può allora essere utile porgere lo sguardo oltre confine nazionale per studiare ed eventualmente replicare gli interventi di successo posti in campo dai principali partner europei. A tal fine, si possono distinguere principalmente tre modelli occupazionali:
- 1.il modello anglosassone (Regno Unito), caratterizzato da elevata flessibilità, investimenti complessivamente contenuti in politiche del lavoro e prestazioni sottoposte alla prova dei mezzi, sanzioni in caso di violazione degli obblighi connessi al godimento dei benefici pubblici (politiche passive-attive), interazione tra agenzie pubbliche e private e sistematica attività di valutazione ex-post;
- 2.il modello continentale (Germania e Danimarca), in cui si registra un bilanciamento tra flessibilità e tutele sociali, anche di tipo passivo, con enfasi sulla formazione professionale e sull’apprendistato, crescente attenzione ai sistemi sanzionatori e sviluppo delle connessioni tra servizi pubblici e privati;
- 3.il modello mediterraneo (Spagna e Italia), con mercati del lavoro fortemente duali e sistemi di protezione sociale categoriali, assenza di supporti al reddito di tipo universalistico (reddito minimo), concentrazione delle risorse sul lato delle politiche passive e deboli legami tra interventi di tipo attivo e passivo, separazione tra intervento pubblico e privato, debole tradizione di valutazione d’impatto degli interventi messi in campo.
E’ chiaro che l’ultimo modello sembra essere quello che presenta maggiori difficoltà in termini di inserimento al lavoro. Bisogna quindi analizzare gli effetti occupazionali dei singoli strumenti di politica attiva posti in essere in alcuni Paesi europei e dedicati esclusivamente ai giovani.
In estrema sintesi, gli strumenti di orientamento e accompagnamento al lavoro posti in essere nei diversi Stati sembrano avere effetti positivi abbastanza limitati, specie se avulsi dagli altri interventi. In particolare, le azioni di orientamento sembrano funzionare in maniera molto blanda se non si affianca all’erogazione dei servizi una forte responsabilizzazione dell’utente, contestualmente ad azioni sanzionatorie/coercitive in caso di mancata presentazione ai colloqui o rifiuto ingiustificato delle proposte di lavoro.
La delega al privato dei servizi di intermediazione, nei Paesi in cui viene realizzata, non sembra in grado di migliorare sensibilmente i risultati, se non attraverso un’inopportuna scrematura dei soggetti e la successiva scelta di quelli più facili da collocare. Su tale argomento, sembrano ottenere migliori risultati il modello IRO olandese e Blackbox anglosassone, dove attraverso il rating dei fornitori privati e l’assegnazione di un “peso” maggiore ai soggetti più difficili da collocale si ottiene un esito occupazionale migliore. In realtà, comparando varie ricerche, è possibile affermare che la performance del privato dipende molto dal suo network con le aziende. Questo significa che i servizi sono secondari rispetto alla capacità di assumere i destinatari della politica attiva tramite i propri contatti. In ogni caso, attualmente la collaborazione pubblico-privato nei servizi di intermediazione sembra godere nel nostro Paese dell’appoggio di tutti i soggetti pubblici e privati (governo, parti sociali e agenzie private) e caratterizzerà quindi la principale sfida per il prossimo futuro, soprattutto in prossimità dell’avvio del programma “Youth Guarantee”.
La formazione rimane la “regina” delle politiche attive del lavoro ma, da un’analisi dell’istituto di ricerca tedesco IZA, risulta che l’impatto della formazione di breve durata è quasi nullo. Anche in altre esperienze i risultati offrono spesso un quadro molto eterogeneo, caratterizzato da un effetto positivo relativamente molto basso, che tende progressivamente ad aumentare con la durata ed il livello di specializzazione del corso di formazione. In Italia, il sistema della formazione appare particolarmente “estraneo” al mondo del lavoro, per cui i maggiori sforzi vanno ricercati soprattutto nell’implementazione di un sistema di istruzione e formazione che sia più “prossimo” al lato della domanda di lavoro, promuovendo ad esempio idonei programmi di alternanza scuola-lavoro.
Attenzione anche agli strumenti di creazione diretta di posti di lavoro (auto-imprenditorialità), che sembrano fornire risultati interessanti per le categorie più adulte, ma esiti nulli o quasi per quanto riguarda l’impatto sul tasso di occupazione giovanile.
Completamente diversi, sulla base di ricerche internazionali, sono gli effetti prodotti dai tirocini, che sembrano apportare risultati nettamente migliori rispetto a tutte le altre strategie. Tale strumento, tuttavia, non va confuso con quello realizzato in Italia. Nel caso tedesco, ad esempio, si tratta di una componente importante del “sistema duale”, dove lo stage in azienda è considerato parte integrante del periodo di istruzione, mentre in Italia è solito utilizzarlo in modo improprio, solo per ottenere spesso lavoro a basso costo (economicamente più conveniente al periodo di prova del contratto a tempo indeterminato o all’apprendistato) e/o per incentivare i giovani ad iscriversi a corsi di formazione a pagamento (master, ecc.).
L’istituto dell’apprendistato può rappresentare il futuro dell’occupazione e della formazione giovanile in Europa, purché applicato in maniera corretta. Molti Paesi, compresa l’Italia, stanno investendo nel suo rilancio, ma per il momento esso non sta portando i risultati sperati. Di fronte al comune proposito di valorizzare l’apprendistato come il canale privilegiato per l’inserimento dei giovani, le risposte dei Paesi europei sono assai diversificate e complesse, alla luce delle sfide contemporanee che caratterizzano il mercato del lavoro in questo particolare momento di crisi.
Le misure su cui puntare vanno quindi nella direzione di un “giusto mix” tra interventi formativi, economici (agevolazioni, sussidi al reddito, incentivi, ecc.) e forme di inserimento lavorativo (tirocini, apprendistato, alternanza scuola-lavoro), consentendo ai giovani di accedere al mondo del lavoro con modalità semplici e “sicure”, debellando l’utilizzo di forme contrattuali estremamente precarie e, ancor di più, del lavoro in nero.