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Inprenditori e sindacalisti diano una spinta decisiva al rapporto Draghi

Nel mio ultimo dibattito pubblico prima dell’estate – un bel Convegno sul futuro del lavoro in Europa – ho ascoltato con sempre più stupore un sociologo tedesco, considerato il guru dei “bruno-verdi”, un partito di estrema sinistra in ascesa di consensi elettorali, anche se non ancora insidioso nei confronti del SPD. Wolfgang Streeck ha sostenuto che è necessario che ci vuole “meno Europa, per più Europa”. Cioè, una consistente cura dimagrante dell’intervento delle istituzioni europee soprattutto nel campo dell’economia, per poi passare ad un rilancio dell’integrazione europea, su basi nuove. Un assist ai sovranisti gratuito. I curiosi possono trovare le sue idee più recenti in un libro, appena edito in Italia da Feltrinelli, dal titolo “Globalismo e democrazia”.

Quando è stato reso pubblico il Rapporto Draghi, Streeck mi è tornato alla memoria e ho pensato che deve aver storto la bocca nel leggerlo. L’avrà considerato un burocrate a 18 carati, all’opposto di quello che pensa un serio economista, Francesco Saraceno. Ha osservato che “Il Draghi degli anni d’oro, alfiere della superiorità dei mercati e orchestratore nei suoi vari ruoli di austerità, privatizzazioni e riforme strutturali è quasi irriconoscibile in un Rapporto che propugna l’intervento pubblico….e abbandona con decisione il totem dell’efficienza dei mercati” (Domani, 22/09/2024).

Draghi sviluppa in 360 pagine un ragionamento semplice e condivisibile: USA e Cina corrono. L’Europa arranca, pur avendo le potenzialità per competere. Ma per riuscirci bisogna fare scelte di priorità (e le elenca), deciderle rapidamente (e indica percorsi e condizioni per riuscirci) e con tanti soldi (e ipotizza 800 miliardi di euro annui, pari al 4,7% del PIL dell’Unione a 27, da mettere a disposizione del decisore europeo assieme a strumenti finanziari messi in campo da una partnership pubblico-privata). E’ un possente grido di allarme, ma senza fatalismo, immaginando che, alla fin fine, la ragione vince sempre sull’emozione. Che gli innovatori, anche se un po’ visionari, hanno la meglio sui conservatori.

Ma il cammino è in salita. Infatti, molti osservatori e commentatori italiani ed europei hanno espresso perplessità se non riserve sul destino del Rapporto. L’iperrealismo, anche se fondato su argomentazioni non strumentali, è parente intimo dell’immobilismo. Ma un dato è certo. L’Europa del 2024 assomiglia all’Italia del 1992. I decisori europei sono in ordine sparso. E’ stata fermata l’ondata sovranista nell’ ultima elezione europea, ma il Parlamento ha una maggioranza europeista risicata e come ha dimostrato il voto sulle armi all’Ucraina, seriamente ballerina (anche grazie al comportamento dei deputati del PD). A sua volta, il Consiglio dei Ministri ha la possibilità ma non la forza politica di prendere decisioni a maggioranza (i Governi di Francia, Germania e Italia – i tre principali Paesi fondatori – non hanno il profilo dell’omogeneità). Per di più, la nuova Commissione Europea poggia la sua autorevolezza sul carisma del suo Presidente; se minimamente vacilla l’effetto VDL si arena la macchina. La tempesta sarebbe perfetta. In altre parole, per applicare il piano Draghi sarebbero indispensabili condizioni di governance che le attuali istituzioni europee, volutamente, non sono in grado di garantire. I troppi distinguo (francesi) e le troppe incertezze (tedesche) ci restituiscono un’Europa imbambolata.  Per una volta, potrebbe servire un modello italiano.

Anche l’Italia di 32 anni fa era nel pantano. “Mani pulite”, più della martellante stagflation, stava mettendo in ginocchio il Parlamento, con arresti a raffica; molti partiti – sia di governo che di opposizione – erano decimati e screditati. Lo stesso Governo Amato era lasciato solo a prendere dure e pesanti decisioni. Preparò una manovra da 94000 miliardi di vecchie lire. Quando l’annunciò ai sindacati, questi non entrarono neanche nel merito. CGIL, CISL e UIL proclamarono lo sciopero generale di 8 ore, ma nello stesso tempo accettarono, come fece anche la Confindustria, di discutere con il Governo un pacchetto di interventi e riforme, compreso il destino della scala mobile. E’ noto come andò a finire. La manovra lacrime e sangue del Governo si attuò, ma anche l’accordo con le parti sociali fu applicato (e rifinito con l’accordo Ciampi dell’anno successivo). L’Italia iniziò a scrollarsi di dosso l’inflazione, la produzione e il lavoro ripresero vigore, il tunnel fu ancora lungo da attraversare, ma si vide la luce.

In quella occasione, la società civile e la sua parte più rappresentativa – le organizzazioni delle imprese e quelle dei lavoratori – si assunsero la responsabilità di cooperare con il Governo per tirar fuori dai guai il Paese. Senza il loro contributo, nessuno sarebbe stato in grado di disegnare un futuro accettabile politicamente, economicamente e socialmente e finanche a contrastare i rischi di un collasso del sistema democratico. Non fu una passeggiata, ma la mobilitazione sociale colorò di creatività e coraggio un paesaggio devastato. Vi era la consapevolezza che non c’erano alternative a quello sforzo collettivo, all’impegno per non rimanere bloccati nel presente mentre era necessario dare priorità al futuro.

Se il domani dell’Europa è quello disegnato da Draghi, se è ancora viva nella coscienza dei Paesi che compongono l’Unione, l’ambizione di non farsi inghiottire dalle superpotenze internazionali in campo e che non fanno sconti, è necessario che la società civile europea si faccia sentire, a partire dalle forze produttive, imprese e lavoratori. Attorno al progetto di Draghi, anche per adattarlo ai contributi che potranno venire dalle parti sociali, si deve costruire un Patto sociale di alto profilo. Occorre dare forza ad un rilancio del dialogo sociale, definendo con la Commissione europea concertazioni permanenti a scala europea che supportino gli altri decisori europei e a cascata realizzare stesse procedure nei singoli Paesi. Non devono fare supplenza ma contribuire a far transitare l’Europa verso nuovi equilibri e un più accettabile benessere per tutti.

Ci vuole da subito più Europa, innanzitutto nella coscienza degli europei. Vale per tutti, ma soprattutto per le forze progressiste. Ragionamenti come quelli di Streeck non   vanno nella direzione giusta. Mi ricordano alcuni dirigenti della sinistra politica e sindacale dei tempi miei, nell’altro secolo. Di fronte alle difficoltà si rifugiavano nello slogan “un passo indietro, per preparare tre passi in avanti”. Il primo era certo, gli altri una incognita e spesso una smentita. E la ragione è semplice; al di là delle volontà, manca sempre il tempo per farli maturare.  

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