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E se anche i dipendenti si mettessero a partita iva?

Non illudiamoci. Il piatto che si sta preparando nella cucina del Governo sarà comunque indigesto. La legge di Bilancio del 2025 se si limitasse a deludere tutte le aspettative che in questi mesi sono state alimentate dai partiti della maggioranza, avrà un retrogusto amaro ma non allarmante. Le parole del Ministro Giorgetti, però, sono pietre e sono state scagliate per preparare l’opinione pubblica a fare i conti con tante lacrime e un bel po’ di sangue. Molti suoi colleghi si sono subito cimentati nell’arte del ridimensionamento delle sue esternazioni. Siccome Giorgetti non ha accompagnato quell’avviso ai naviganti con un mea culpa circa la dissennata politica della delegittimazione del dettato costituzionale sulla progressività del prelievo fiscale praticata in questi due anni, il gioco all’annacquamento del messaggio è stato facilitato.

Che abbia convinto gli italiani è dubbio. Tutti sanno che a pagare le tasse nella maniera costituzionalmente giusta sono rimasti un numero sempre più assottigliato di contribuenti. A colpi di esenzioni, sgravi, flat tax la compartecipazione al finanziamento della spesa pubblica si è prosciugata e l’onere è rimasto in capo a chi è sottoposto al prelievo alla fonte. Vale a dire i lavoratori dipendenti e i pensionati. E’ una storia che viene da lontano, ma ha galoppato nell’ultimo trentennio. 

La seconda Repubblica, quella dell’alternanza tra governi di centrodestra e di centrosinistra è stata un continuo rinnegamento delle radici culturali dei due schieramenti. Storicamente, la destra liberale è sempre stata taccagna, ligia alle regole della contabilità in ordine, ben disposta alle richieste del profitto e delle rendite ma non a scialacquare. Semmai è stata la sinistra che, pur di dare una prospettiva di solido stato sociale, è conosciuta come keynesiana, con venature socialistizzanti e attenta a ridurre le disuguaglianze. I ruoli si sono capovolti; il centrodestra al potere ha speso sempre di più di quanto incassava, anche per l’attitudine a tollerare l’evasione e l’elusione fiscali. Al centrosinistra è toccato il compito dell’austerità, la fatica di non sfaldare i servizi sociali, la responsabilità di risanare nei limiti del possibile i conti pubblici.

Ma l’allieva ha superato il maestro. Il Presidente Meloni ha realizzato quello che il Presidente Berlusconi non ha neanche osato fare. Ha fatto diventare criterio di governo una regola non scritta ma che nei fatti suona così “meno tasse paghi, più risorse avrà lo Stato”. Fiducia infinita sul ravvedimento operoso degli evasori. In ordine a questo assioma ha caratterizzato la politica fiscale governativa e quote consistenti di cittadini sono state autorizzate a continuare ad usufruire di tutti i servizi pubblici essenziali, versando meno soldi. 

E’ stata data notizia recentemente che il numero delle partite IVA è in aumento, dopo un periodo di calo e in concomitanza di un inizio di diminuzione dell’occupazione dipendente a causa del freno che da qualche mese sta subendo l’attività produttiva. Da tener presente che l’Italia rispetto agli altri Paesi europei ha da tempo il più alto numero di lavoratori indipendenti ed autonomi, dai professionisti, ai tecnici, agli artigiani, ai commercianti e finanche operai, specie fra gli immigrati. La ripresa del lavoro autonomo è in parte scelto dalle singole persone e in parte imposto dalle imprese che decentrano lavorazioni prima internalizzate.

Cosa succederebbe, seppur lentamente, se i lavoratori dipendenti si convincessero che sarebbe meglio se quel 50% di trattenute previdenziali e fiscali sul loro salario lordo vorrebbero gestirlo autonomamente? Cosa cambierebbe se facessero questa richiesta e i loro datori di lavoro l’accettassero? Assisteremmo che, a legislazione invariata, non ci sarebbe più certezza di incassi, mese dopo mese, da parte del Ministero dell’economia e da parte dell’INPS. L’effetto simpatia per questa migrazione di status sarebbe la tomba dell’economia sociale di mercato come l’abbiamo conosciuta da quando esiste il prelievo alla fonte sui salari e stipendi.

Questa misura è stato il più alto contributo che i lavoratori dipendenti hanno dato all’affermazione del welfare state e sarebbe micidiale solo pensare di pensionarlo. Ma i prodromi ci sono tutti. L’area del lavoro nero è in buona salute; l’elusione è, per la parte Iva, in diminuzione ma ancora molto c’è da fare; l’evasione è scovata di più ma il problema è la   riscossione e questa è ai minimi termini; i redditi da rendite mobiliari e immobiliari sono ancora trattati con i guanti gialli. Dietro queste categorie ci sono persone che quello stato sociale lo utilizzano alla pari se non meglio dei lavoratori dipendenti e dei pensionati. Se a essi si aggiunge l’area delle professioni e del lavoro autonomo, che usufruiscono della flat tax, si sommerebbe un numero rilevanti di aventi diritto ai servizi pubblici riguardanti salute, istruzione, trasporti, per citare i più rilevanti, senza compartecipare al loro finanziamento in relazione ai redditi percepiti.

Finora ha supplito l’indebitamento pubblico, che ha raggiunto, solo per gli interessi pagati dallo Stato ai possessori dei titoli di credito, gli 80 miliardi di euro annui. Ma per dirla con le parole con cui ha vinto le elezioni l’attuale Presidente del Consiglio, “la pacchia è finita”. Ci siamo impegnati in sede UE di rientrare sia pure gradualmente dal massiccio indebitamento pubblico. Ma ciò che è più allarmante è che il degrado dei servizi pubblici ha raggiunto un livello tale per via delle scarse risorse per investimenti e per l’erogazione di dignitosi salari, che ha prodotto anche la svalutazione del lavoro dipendente. Non solo di quelli che lavorano nel settore pubblico, ma anche di quelli impegnati nel privato. Pagano lo Stato sociale per tutti e gli viene restituito in modo sempre più inadeguato.

Non c’è da aspettarsi nessun scatto di resipiscenza da parte delle forze politiche e sociali che hanno fatto fortuna attaccando lo Stato sociale e puntando a sottrarre risorse. Al meglio proporranno piccoli aggiustamenti, ulteriori tagli, pomposamente presentati come efficientamento degli apparati pubblici. L’onere del riscatto da questa situazione è a carico delle forze politiche e sociali che intendono continuare a fare della lotta alle disuguaglianze e della ridefinizione di nuovi equilibri sociali la base della loro identità. Queste forze devono accompagnare la denuncia della deriva in atto con la proposta di un cambiamento di paradigma del rapporto tra cittadini e Stato, a partire dalla piena attuazione del criterio “pagare meno, pagare tutti”. Senza por mano ad un sistema fiscale non più da società industriale ma consapevole che la ricchezza si è spostata significativamente dalla fabbrica ad altra aree di creazione di valore aggiunto e di qualificazione della produzione di beni e servizi materiali ed immateriali, quel criterio è inattuabile. Questo è l’unico modo, oltretutto, per non far montare ulteriormente la dicotomia tra le varie forme di lavoro che si stanno giocando un’egemonia non sana. 

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