La notizia non è nuovissima e forse abbastanza nota almeno nelle sue caratteristiche se non nelle sue dimensioni : la Corte dei Conti ha indicato che nel periodo di programmazione 2007/2014 le casse italiane registrano un saldo negativo con la UE di 39 miliardi, che rappresenta quindi la differenza tra quanto abbiamo dato e ricevuto in quel periodo di tempo e che soltanto nel 2014 l’Italia ha versato 5,4 miliardi in più di quanto abbiamo ricevuto.
Inoltre, sottolinea la Corte, l’Italia continua a farsi carico insieme ad altri Paesi di una quota dei rimborsi al Regno Unito per la correzione dei suoi “squilibri di bilancio” (circa 1,2 miliardi di euro nel 2014, con un incremento di circa il 29% rispetto all’anno precedente).
A sessant’anni dal Trattato di Roma e volendo fare un bilancio con un minimo di senso critico possiamo dire che per moltissimi anni essere tacciati di euroscetticismo era quasi un epiteto, riservato per lo più alle destre xenofobe e populiste che parlavano a quella che dispregiativamente era definita “ la pancia “ del Paese.
La realtà è invece che in molte aree moderate e progressiste una diffidenza di fondo esiste da sempre e non semplicemente perché magari si auspicano politiche più ispirate allo sviluppo che alla difesa strenua delle rigide regole economiche.
Esisteva ed esiste un dubbio ben più profondo sulla natura stessa dell’Europa, sulla possibilità che un giorno saremmo potuti arrivare ad una unione non meramente economica e monetaria ma anche politica e sociale, quegli Stati Uniti d’Europa lungamente vaneggiati.
Il problema che la Brexit e i movimenti antieuropei sempre più forti e presenti nei maggiori Paesi dell’Unione hanno evidenziato chiaramente, è che non esiste (e forse non è mai esistita) quella base condivisa di una precisa volontà di superare gli interessi particolari a favore dell’interesse comune.
Gli stessi euroburocrati ed europarlamentari che avrebbero rispettivamente il compito amministrativo e politico di costruire questa base comune sembrano più inviati dagli Stati a difendere i campanili piuttosto che a definire gli elementi che dovrebbero comporla.
C’è troppa differenza culturale, politica, religiosa, sociale e banalmente anche linguistica perché l’Europa esista come dimensione sovrastatale sull’esempio degli Stati Uniti d’America, il Paese con la maggiore autonomia degli Stati che lo compongono e al contempo con il maggior senso d’appartenenza ad un’unica nazione.
Alla cruda luce dei fatti se qualcuno inizia a parlare di Italexit non è più etichettabile come nel passato e forse pur non arrivando agli eccessi delle politiche trumpiste è probabilmente necessario migliorare i rapporti bilaterali con quegli Stati che maggiormente ci possono essere vicini , non solo per legittimi interessi economici, ma anche per una comune visione di politica internazionale ( in primis sulle politiche migratorie) e non per la costatazione della Merkel delle diverse velocità.
Piuttosto che una serie di uscite traumatiche dall’Unione sarebbe il caso allora di affrontare questo problema nel luogo dove tutto è nato.