Dovremmo smettere di definire «schiavi» gli immigrati indiani in Italia: è una retorica che non rende la loro condizione (complessa) di sfruttamento e li trasforma soltanto in vittime
In seguito alla morte di Satnam Singh, avvenuta il 19 giugno scorso, sono stati pubblicati innumerevoli articoli per denunciare le (a dir poco) difficili condizioni di vita degli immigrati indiani nella provincia di Latina, molti dei quali sono costretti a turni estenuanti in agricoltura, dove lavorano in nero o con contratti irregolari, sotto al caldo e al freddo estremo delle serre e delle stagioni, respirando i vapori tossici dei pesticidi, senza alcuna protezione fisica o previdenza sociale, senza ferie e malattia, costretti alle regole imposte da datori di lavoro senza scrupoli e senza cuore. Per coloro che si impegnano da anni a combattere e rendere note al pubblico queste ingiustizie, nulla di tutto ciò appare nuovo. Per la maggior parte dell’opinione pubblica italiana e internazionale, invece, il caso di Satnam Singh è stato rivelatore di quell’intricato e diffuso sistema di sfruttamento lavorativo e tratta in cui purtroppo restano invischiati, in Italia, moltissimi immigrati (indiani e non solo).
Questi innumerevoli articoli hanno però qualcosa in comune: a prescindere dalla testata e dall’autore, tutti chiamano gli indiani «schiavi»; spesso, vi fanno seguire l’aggettivo «invisibili». Questi termini, per il loro forte impatto emotivo, sicuramente servono a scuotere le coscienze e ad attirare l’attenzione del pubblico e delle istituzioni su un fenomeno che necessita un intervento urgente e radicale. Di certo, poi, queste espressioni sembrano scaturire da giusti sentimenti di indignazione e rabbia per le sopraffazioni che i lavoratori indiani subiscono quotidianamente nei campi e altrove. Tuttavia, sarebbe giusto anche chiedersi: a chi giova questa narrativa? Gli immigrati indiani in Italia considerano sé stessi «schiavi»? E che effetto ha per loro leggere su tutti i giornali che vengono definiti tali?
In realtà, la narrativa degli immigrati indiani «schiavi» non è affatto nuova: basta guardare gli articoli pubblicati negli ultimi dieci anni sul tema, e si può osservare come la stessa terminologia sia stata usata da quasi ogni testata giornalistica, inchiesta e ricerca. Nel 2015, su Internazionale: «Gli schiavi della Little India pontina», e su Ansa «Gli schiavi dell’Agro Pontino». Nel 2018, sul Corriere della Sera: «Le voci dall’inferno dei migranti: a Latina il primato ‘schiavi’ indiani», e su La Stampa: «La rivolta dei braccianti sikh, i nuovi schiavi dell’Agro Pontino». Nel 2022, un approfondito reportage su IrpiMedia si intitola: «Dal Punjab a Latina, pagare per diventare schiavo». Non solo, ma i luoghi dove gli immigrati indiani vivono concentrati nella provincia di Latina, in particolare il residence di Bella Farnia Mare a Sabaudia e la frazione di Terracina di Borgo Hermada sono definiti ripetutamente «ghetti» (Corriere della Sera), «Terzo mondo» (Sabaudiainforma), «Kali yuga» (un termine dispregiativo che descrive lo stadio più degradato nel ciclo del cosmo secondo la dottrina indù – LatinaTu).
L’ultimo articolo pubblicato dal Corriere della Sera: «Sabaudia Sikh & Vip, a un passo dai beach party sfila l’inferno degli schiavi» è l’esempio perfetto di questa narrativa. Vi emerge una giusta indignazione per il contrasto fra la bella vita della città balneare e le ingiustizie che vi sono perpetrate contro i lavoratori agricoli indiani. Tuttavia, l’articolo non manca di errori ed esagerazioni: gli indiani vengono generalizzati tutti come «sikh», confondendo quella che è la religione maggioritaria fra questi immigrati e la loro etnia, che sarebbe più corretto, semmai, definire Punjabi. Gli indiani della provincia di Latina, infatti, al contrario di quello che scrivono i giornali, non sono tutti sikh. La comunità è invece molto variopinta al suo interno: le persone provengono da diversi Stati indiani, da diverse caste, e seguono una pluralità di religioni e tradizioni che non si lasciano descrivere univocamente dalla definizione «sikh». Questa tendenza a ignorare le molteplici identità religiose, sociali, e culturali che compongono questa (e altre) comunità migranti svela piuttosto l’atteggiamento essenzialista e riduzionista di molta stampa e politica italiana verso gli stranieri, che preferisce semplificare piuttosto che approfondire, categorizzare piuttosto che comprendere. Non a caso, nello stesso articolo viene descritto il residence Bella Farnia Mare come uno «slum», un termine che, a quanto pare, l’autore automaticamente associa all’idea dell’India.
Dopo aver vissuto a Bella Farnia Mare per le mie ricerche di dottorato e aver intervistato centinaia di immigrati indiani in Italia, donne e uomini, giovani e anziani, sikh e non sikh, di varie caste e classi, di città, villaggi, e Stati di origine diversi, con storie di vita opposte e complementari, il continuo chiamare «schiavi» coloro che per me sono diventati amici e compagni di lavoro mi appare un’ulteriore ingiustizia che, in quanto italiani, stiamo infliggendo a queste persone.
Perciò con questo articolo vorrei fare un appello: smettiamo di chiamare gli immigrati indiani in Italia «schiavi invisibili» e piuttosto che parlare di o per loro, parliamo con loro. Sento, dal profondo del cuore, ma ancor più dalle loro testimonianze e dalle loro parole, che questo modo di descriverli li offende e li ferisce in un orgoglio già segnato dalle odiose ingiustizie che spesso si trovano a dover affrontare nel nostro paese.
Harvinder Singh, documentarista e ricercatore universitario a Roma, ha lavorato come mediatore culturale a stretto contatto con immigrati indiani vittime di tratta e sfruttamento lavorativo per il progetto Diagrammi Nord e per il Progetto Regionale Antitratta Lazio. A suo parere «se già in India questi ragazzi sono stigmatizzati, ad esempio per via della casta, o della discriminazione religiosa, quella di ’schiavi’ è un’ulteriore etichetta negativa che non rispecchia la loro realtà vissuta. Sono indebitati, irregolari, costretti a lavorare in condizioni di sfruttamento. Loro vogliono ribellarsi, ma non sanno come uscirne, non sanno a chi rivolgersi».
Rifiutarsi di chiamarli schiavi non significa sminuire né tanto meno negare le sofferenze e profonde ingiustizie cui molti sono esposti. Significa piuttosto riconoscere loro la dignità che proprio quelle ingiustizie provano a sottrargli; significa concepirli come soggetti con una propria identità, capacità e volontà di agire, sebbene oppressi da circostanze avverse. È possibile che per avere rispettati i propri diritti fondamentali gli individui debbano necessariamente impersonare il ruolo di vittime e rinunciare a essere considerate persone?
Bella Farnia non è uno slum, e Borgo Hermada non è un ghetto. In entrambi vivono migliaia di lavoratori e di famiglie, con bambini, madri, casalinghe, studentesse, anziani e ragazzi che, come tutti noi, lottano ogni giorno con affitti e beni di consumo sempre più cari e stipendi miseri e inadeguati; con burocrazie complicate e inaccessibili ed amministrazioni spesso carenti o sovraccariche; con la difficoltà di realizzare i propri sogni in un mondo sempre più diseguale, o con i piccoli problemi quotidiani e le difficoltà della vita. Gli immigrati indiani si concentrano in queste zone perché sono vicine ai campi dove lavorano, o perché non riescono a trovare casa altrove, o perché cercano di ricavarsi uno spazio di comunità e condivisione all’interno di un contesto rurale che, quando non li discrimina e li sfrutta, li emargina e li ignora.
In questi villaggi indiani in miniatura possono almeno cucinare e riunirsi senza le lamentele degli italiani sulla «puzza» del loro cibo e sulla «bruttezza» dei loro vestiti tradizionali. Possono invitarsi a cena a vicenda senza rischiare la vita pedalando chilometri su strade senza piste ciclabili e male illuminate. I braccianti possono condividere una casa senza dover spendere l’intero stipendio per pagarsi un posto letto, e possono fare i turni in cucina e a fare le pulizie. Lavano i piatti e i vestiti a mano e li stendono su corde appese in terrazzo perché l’umidità delle case non li farebbe asciugare.
I più giovani vanno a scuola, parlano italiano e Punjabi fluentemente, e dopo aver finito i compiti giocano a calcio per i vicoli, o si rincorrono in bici nel giardino comune. Le mamme si incontrano ogni giorno all’ora di pranzo all’entrata per prendere i figli di ritorno con lo scuolabus; si scambiano novità, consigli, gossip. Il pomeriggio si incamminano in fila sulla Litoranea per portare i bambini al doposcuola vicino alla chiesa, e li aspettano nella piazza di fronte due ore, chiacchierando e ridendo, o lamentandosi di problemi e difficoltà. Poi ritornano e preparano la cena, ascoltando musica in sottofondo da canali indiani in televisione o su YouTube, aspettando i mariti di ritorno dai campi. La domenica, condividendo la macchina o il furgone collettivo, vanno a cantare preghiere e mangiare insieme nel loro tempio preferito.
Se queste sono soltanto vite da Terzo mondo, allora anche l’Italia è il Terzo mondo.
*Annamaria Laudini è una dottoranda in Antropologia Sociale presso l’Istituto Universitario Europeo a Firenze