Secondo quanto comunicato dal MEF, nel suo incontro con il FMI, il ministro Giorgetti «ha ricevuto elogi per il suo impegno a perseguire il consolidamento di bilancio promuovendo allo stesso tempo la crescita». In effetti il governo può “vantare” i giudizi positivi ottenuti da tutte le agenzie di rating, con Fitch, in particolare, che non solo conferma il rating, ma alza l’outlook da stabile a positivo e afferma in una nota che l’Italia ha un “piano fiscale credibile” e una “situazione politica stabile” che, se continuerà, “sosterrà il consolidamento di bilancio.
Anche diversi economisti italiani hanno dato un giudizio positivo dal punto di vista “complessivo” alla manovra, per l’obiettivo di scendere anticipatamente sotto il deficit del 3% in modo da uscire dalla procedura per deficit eccessivo e per affrontare in nodo della riduzione del debito pubblico.
È una manovra restrittiva, fondata sul controllo/riduzione della spesa pubblica, nuovo parametro di controllo delle regole europee, e certamente dalla politica di bilancio non verrà per tutta la durata del Piano Strutturale di bilancio (PSB), 2025/31, un impulso positivo alla domanda. Qualcuno ha richiamato in proposito la definizione di “austerità espansiva” di giavazziana memoria. L’idea è che “manovre restrittive, come questa, che però rafforzano la credibilità del paese, tramite gli effetti positivi sui tassi di interesse possono avere anche effetti espansivi” (Bordignon-Leonzio, LaVoce).
Non è che nel passato questo tipo di manovre abbiano dato grandi frutti rispetto alla crescita. Si deve, tuttavia, riconoscere che, dato l’ammontare del nostro debito pubblico, un giudizio positivo dei mercati è essenziale per non fare aumentare il suo costo e che l’osservanza delle nuove regole europee è una condizione altrettanto essenziale per ottenere, nel caso servisse, il soccorso della BCE.
Semmai colpisce che alla fine la politica di finanza pubblica del centrodestra sia simile alla passata politica di finanza pubblica del centrosinistra. Un cittadino italiano entrato in coma all’epoca del governo Gentiloni e risvegliatosi oggi, posto dinanzi al DPB meloniano potrebbe tranquillamente pensare che lo ha fatto Gentiloni. Che distanza dai programmi elettorali del centrodestra, che immersione nella realtà!
Come osserva I. Cipolletta in un articolo sul Domani, da anni l’Italia oscilla tra due alternative di politica di bilancio: “dare un colpo severo e definitivo al debito pubblico attraverso una manovra di bilancio che facesse emergere un avanzo primario consistente e permanente, con l’aspettativa di beneficiare di una riduzione del costo del denaro che permettesse di non sacrificare troppo la crescita economica; oppure puntare su un forte sostegno alla crescita attraverso un disavanzo pubblico importante, volto a migliorare la capacità produttiva del paese e tale da far aumentare il reddito italiano in misura tale da contenere il peso del debito pubblico seppure aumentato un valore assoluto”. Stretta dalle regole europee da un lato e dall’altro dalla “impossibilità” politica di ridurre la spesa pubblica e/o di aumentare le tasse la politica ha scelto sempre la via di mezzo con aggiustamenti al margine e senza affrontare i problemi di fondo.
Il PSB e questa legge di bilancio sono su questa linea e bene fa l’opposizione a criticarli. Si vorrebbe capire cosa di diverso strutturalmente propone l’opposizione
Poi ci sono i problemi di natura macroeconomica legati alla credibilità del quadro previsivo del governo e quelli di giudizio legati alle singole misure contenute nella manovra.
Banca d’Italia e UPB nelle loro audizioni sul PSB hanno dichiarato fondamentalmente che le previsioni macroeconomiche del governo sono accettabili anche se alquanto ottimistiche.
L’incertezza proviene dalla situazione internazionale a cui possiamo aggiungere, prima del 5 novembre, dall’l’esito delle elezioni americane. Un eventuale successo di Trump e la riproposizione di dazi sulle importazioni dall’Europa, in particolare da Germania e Italia, paesi in attivo commerciale con gli Usa, che effetto avrebbe sull’economia europea?
Sulle previsioni di crescita del PIL pesano ora anche gli ultimi dati resi noti dall’Istat. Prima la revisione della crescita del primo semestre 2024, poi il dato provvisorio del terzo trimestre con una stazionarietà del PIL e una crescita acquisita per il 2024 dello 0,4% ben lontana dal +1% indicato dal governo. La stessa previsione di crescita dello 0,7/0,8% fatta da FMI, Bd’I e altri previsori sembra a questo punto ottimistica e questo potrebbe avere effetto sulla crescita negli anni successivi e quindi sulle previsioni di finanza pubblica.
Vi è poi da considerare che non solo l’Italia ma molti altri paesi europei, in ossequio alle nuove regole, adotteranno nel 2025 politiche di bilancio di segno restrittivo. Dall’Europa non verrà, quindi, nessun aiuto alla crescita della domanda e alla crescita in generale. Semmai potrà esserci il rischio di un effetto negativo cumulato sugli scambi nell’eurozona.
Molto dipenderà anche dalla BCE e dalla velocità con cui farà scendere i tassi di interesse per ora ancora superiori al tasso di inflazione.
Il punto che più ha trovato concorde la critica, o quantomeno gli interrogativi, degli osservatori del quadro tendenziale presentato dal governo è l’evoluzione prevista delle entrate. Le previsioni si basano sulle entrate della prima parte del 2024 che sono proiettate sull’intero anno e sono considerate in buona parte strutturali, quindi permanenti, e crescenti negli anni successivi. Si tratta di circa 18 miliardi in entrate in più nel 2025, 27 in più nel 2026, 28 in più nel 2027 contenute nel PSB rispetto alle stime fatte nel DEF senza convincenti spiegazioni sulle cause. Si può aggiungere che le previsioni del DEF erano fatte dal Ragioniere Generale Biagio Mazzotta, quelle del PSB sono fatte dal successore, voluto dal governo, Daria Perrotta.
È in questo quadro che si colloca la manovra, di un ammontare pari a 28,3 mld secondo il DPB inviato a Bruxelles, ma lievitata fino a 34,5 mld nel testo mandato in Parlamento.
Nella manovra le risorse vengono assorbite principalmente dalla conferma della riduzione del cuneo fiscale (reso strutturale) e dell’intervento sulle aliquote Irpef (anch’esso reso strutturale). Le due misure assorbono rispettivamente 12,9 e 4,4 mld nel 2025.
Era ovviamente impensabile non confermare una misura di intervento a favore delle retribuzioni più basse nella situazione economica attuale. Il lato positivo della nuova misura sta nella sua trasformazione da taglio contributivo a intervento fiscale. Questa modifica ha eliminato due gravi problemi che il taglio del cuneo contributivo aveva: quello relativo al finanziamento del sistema pensionistico e del welfare in generale e quello relativo alla corrispondenza tra contributi e pensione, cardine del sistema contributivo. Con l’estensione della nuova detrazione introdotta fino a 40.000 euro è stato anche eliminato il problema del salto a 35.000 euro dovuto alla scomparsa della decontribuzione e si sono concessi vantaggi decrescenti a oltre 1.300.000 lavoratori dipendenti in più.
Vi sono anche aspetti non positivi. Questa modifica posta a favore dei lavoratori dipendenti introduce ulteriori elementi di differenziazione nel sistema Irpef tra dipendenti, pensionati e autonomi non in flat tax, differenziazioni che non avrebbero ragione di esistere. Va inoltre considerato che la nuova detrazione produce, tra i 32.000 e i 40.000, euro una aliquota marginale pari al 56,18%, al netto delle addizionali, il che significa che un lavoratore la cui retribuzione si colloca in quella fascia, vedrà un aumento retributivo di 100 euro lordi ridursi al netto, fatto salve le addizionali, a 39,8 euro. Urge una riforma dell’Irpef.
Restando in campo fiscale e passando alla voce maggiori entrate spiccano per diverse ragioni nella manovra due misure: il taglio delle tax expenditures e l’intervento su banche e assicurazioni.
Il taglio delle tax expenditures sopra i 75.000 euro di reddito e in funzione della composizione del nucleo familiare non risalta certo per l’entità del risparmio prodotto. Dalla tabella riportata in Relazione tecnica sembra ammontare a 65 milioni nel 2025 e salire poi a 200 nel 2026. È la platea di contribuenti sui quali interviene che colpisce.
È certamente vero che le tax expenditures sono tante (oltre 100 mld) e che vanno quanto meno ridotte. Se ne parla dall’ultimo governo Berlusconi (2011) quando Tremonti fu costretto dal presidente Napolitano a mettere nella sua ultima legge finanziaria una norma che prevedeva un taglio di 20 mld delle spese fiscali. Poi, caduto Berlusconi, Monti optò per l’IMU e nessun governo da allora è riuscito, o ha voluto, ridurre queste voci di sconto fiscale, semmai le ha aumentate. Il tetto per ridurle è la forma politicamente più neutra rispetto, ad esempio, all’eliminazione delle singole voci che comporta l’insurrezione dei diretti interessati privati del singolo beneficio.
Il punto è che a usufruire delle tax expenditures sono i contribuenti capienti che pagano l’Irpef. Non ne usufruiscono gli evasori, non ne usufruiscono gli autonomi in flat tax, non ne usufruiscono gli incapienti. Quindi tagliare le tax expenditures in funzione del reddito significa colpire chi paga l’Irpef, quindi essenzialmente lavoratori dipendenti e pensionati di reddito medio e medio-alto, e condizionarle alla composizione del nucleo familiare significa colpire i single e gli anziani, in particolar modo i pensionati.
Tutto questo può anche essere ragionevole in un quadro di riforma dell’Irpef che veda la diminuzione della pressione fiscale su questi soggetti, altrimenti, a parità di pressione fiscale complessiva, è solo un aumento di imposta su chi già oggi è il principale bersaglio dell’Irpef.
L’intervento su banche e assicurazioni consente invece al governo di recuperare 3,5 mld nel 2025 per la manovra. Non si tratta di “nuove” imposte, ma solo di un anticipo di imposte future. In particolare per le banche si rinviano al futuro le deduzioni sullo stock di svalutazioni e perdite dei crediti, per le assicurazioni si modifica la disciplina del versamento dell’imposta di bollo. In concreto banche e assicurazioni versano anticipatamente imposte che avrebbero dovuto versare nei prossimi anni. Lo stato, quindi, incasserà, di meno in quegli anni. A tutti gli effetti si tratta di un prestito a zero interessi, nessuna tassa sugli extraprofitti. Del resto più che tassare extraprofitti veri o presunti, un governo dovrebbe semmai evitare la loro formazione tutelando imprese e consumatori con la concorrenza sul mercato tra banche e assicurazioni.
Effetti sulle entrate fiscali delle misure su banche e assicurazioni
(milioni di euro)
2025 | 2026 | 2027 | 2028 | 2029 | 2030 | 2031 | |
Assicurazioni | 970,4 | 397 | 385,1 | 184,8 | -15,4 | -27,4 | -39,4 |
Banche | 2.541,60 | 1.526,10 | -461,7 | -970,4 | -970,4 | -970,4 | 0 |
Fonte Relazione Tecnica
Altre entrate fiscali derivano da misure in materia di lotta all’evasione (1,2 mld nel triennio 2025/27), da imposte sui giochi (0,6 mld nel triennio, dalla rivalutazione sia dei terreni edificabili e agricoli che delle partecipazioni (2,2 miliardi nel triennio), dall’estensione della platea della web tax, dall’innalzamento della tassazione dei proventi da criptovalute, ma anche dal taglio delle detrazioni Irpef per i cittadini extra-comunitari.
Il governo ora attende l’esito del Concordato fiscale per capire se ha a disposizione 2/3 mld per un ulteriore intervento sull’Irpef, diviso al suo interno tra chi vorrebbe destinarli ad un aumento del limite di accesso alla flat tax degli autonomi e chi invece vorrebbe destinarli al taglio della seconda aliquota Irpef e all’innalzamento del limite del secondo scaglione Irpef.
Nel primo caso saremmo nel solito “regalo” al bacino elettorale di riferimento premiato prima col Concordato e poi con un’ulteriore diminuzione delle tasse. In ogni caso si tratterebbe, come per le misure per le banche e le assicurazioni, di forme di finanziamento provvisorio che nel futuro dovranno essere sostituite da altre entrate o da tagli di spesa.
La conferma del taglio del cuneo e della riforma dell’Irpef assorbono larga parte delle risorse e lasciano spazi limitati per la crescita di altre voci della spesa pubblica. Ne deriva quindi una contrazione in termini reali delle altre voci di spesa e un ridimensionamento degli annunciati interventi a favore della natalità.
Per la sanità il DDL Bilancio stabilisce un aumento del finanziamento sanitario nazionale nella misura di 1,3 mld nel 2025. di 5 mld nel 2026 e 5,8 mld nel 2027. In queste risorse sono comprese anche quelle necessarie per il rinnovo del contratto del SSN. Al netto di queste risorse, in base al calcolo fatto dall’OCPI, le risorse stanziate nel triennio sarebbero pari rispettivamente a 960 milioni nel 2024, 4,3 mld i nel 2026 e 4,7 mld nel 2027.
Rispetto al PIL la spesa è pari al 6,3% e salirà al 6,4%. Siamo a livelli preCovid, a valori a cui era scesa negli anni tra il 2010 e il 2019. Livelli da confrontare con quelli di Francia, Germania e R. Unito a cavallo del 10%.
Tante risorse, quindi, rispetto alla finanza pubblica italiana, poche risorse rispetto allo stato del SSN e rispetto al confronto con la spesa sanitaria pubblica degli altri paesi europei.
C’è un problema di finanziamento della sanità, aggravato nel tempo dal progressivo svuotamento dell’Irap e della base imponibile Irpef che ha ristretto ai soli redditi da lavoro dipendente e da pensione la fonte di finanziamento derivante dall’addizionale regionale. Basterebbe estendere l’addizionale a tutti i redditi per ricavare risorse per la Sanità. Difficile che lo faccia un governo che per principio afferma di voler ridurre le tasse, potrebbe proporlo l’opposizione visto che giustamente chiede un aumento della spesa sanitaria.
Per la famiglia e la genitorialità alla fine è stato stanziato un solo miliardo medio all’anno nel triennio, con l’istituzione di un bonus di 1.000 euro per ciascun figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2025 limitato alle famiglie con ISEE inferiore a 40 mila euro. Difficile pensare di invertire con queste risorse il saldo demografico negativo della popolazione italiana.
Sulle pensioni si confermano essenzialmente i provvedimenti della scorsa legge di bilancio che vedevano un “rafforzamento” della legge Fornero, esito paradossale per un governo che aveva fondato parte della campagna elettorale sulla cancellazione di quella legge.
Gli stanziamenti sono quindi minimi e limitati al finanziamento di quota 103, opzione donna e Ape sociale. È ripristinata la perequazione delle pensioni secondo la legge 388/2000, si torna cioè alla perequazione per scaglioni su tre fasce e non sull’intero importo. Con un’inflazione utile per il calcolo della perequazione probabilmente inferiore all’1% non è un gran peso per le finanze pubbliche. Appare una vera cattiveria averla sospesa nel 2025 per i pensionati residenti all’estero.
Grandi polemiche per l’esiguità dell’aumento delle pensioni al minimo. Ovviamente dopo gli annunci (tutte a 1.000 euro) si fanno i conti con i costi. Vanno tuttavia fatte alcune considerazioni. È ovvio che con una pensione di poco più di 600 euro non si vive, questo ci rimanda al problema di un reddito/pensione di cittadinanza.
Una pensione minima erogata dall’Inps, più esattamente un pensionato Inps che gode complessivamente di un trattamento minimo, con tutta probabilità ha un’integrazione al minimo, usufruisce della maggiorazione sociale e della quattordicesima mensilità. Sono tre prestazioni date dallo stato in aggiunta alla pensione maturata con i contributi. Lo stato, quindi, già interviene a favore dei pensionati minimi. È poi da capire la ragione del basso livello delle pensioni maturate. Una cosa è se è il frutto della precarietà del mercato del lavoro, altro se è il frutto voluto di una evasione contributiva volta a tutelarsi in modo diverso per la vecchiaia. L’alto numero di pensionati al minimo tra gli autonomi fa pensare che questo fenomeno non sia limitato.
La frenata del Pil nel secondo e terzo trimestre ha messo in luce la crisi che colpisce il settore industriale italiano in quasi tutti i suoi settori, dal tessile alla metallurgia, dalla gomma plastica agli autoveicoli. Tra le cause, il costo dell’elettricità più alto, in Italia rispetto agli altri paesi europei e nettamente più elevato di Asia e Nord America.
Problemi specifici poi, nel settore dell’automotive (Stellantis) con la perdita di posizioni dell’auto tedesca sui mercati internazionali, con gli effetti indotti che ne derivano per l’industria italiana in misura significativa.
Rispetto a questi problemi la legge di bilancio non mostra particolare attenzione.
Le misure a favore delle imprese sono limitate all’istituzione di una Zona Economica Speciale per tutto il Mezzogiorno e al rifinanziamento della Nuova Sabatini, per un ammontare di 2,2 mld nel 2025, 1,5 nel 2026 e 2 nel 2027.
A questi interventi si contrappone una riduzione complessiva delle agevolazioni contributive per le aree svantaggiate, tra cessazione della “decontribuzione sud” e l’istituzione di un fondo compensativo, che ammonta a minori spese per -3,4 mld nel 2025 e a -2 mld nel 2026.
Complessivamente, quindi, le misure sulle imprese nel biennio 2025/26 hanno un effetto restrittivo. A questo si aggiunge il definanziamento di 4,6 mld al fondo di sostegno per il settore automotive nel periodo 2025-2030.
Non muta certo la situazione il rinnovo della riduzione dell’imposta sostitutiva dal 10% al 5% per i premi di produttività e l’esclusione dal reddito dei costi di rilocazione per i lavoratori che trasferiscono la propria residenza.
Un contributo importante ai conti pubblici nella legge di bilancio è dato dal taglio dei finanziamenti assegnati agli enti territoriali e della spesa dei ministeri.
Tenendo conto di tagli e rimodulazioni varie di fondi, gli Enti locali contribuiscono alla manovra con 0,8 mld di minori uscite nel 2025 e 1,9 mld annui nel 2026 e nel 2027. I Ministeri a loro volta contribuiscono con 2,2 mld nel 2025 e 2,9 mld nel 2026 e 2,7 mld nel 2027.
Sono tagli che si aggiungono a quelli già decisi con la legge di bilancio dello scorso anno e che certamente incidono negativamente sia sui servizi ai cittadini offerti dalle amministrazioni centrali e locali, sia sulle loro capacità/possibilità di investimento.
Lette le singole misure e riaffermato un giudizio positivo per la riduzione del deficit appaiono evidenti i problemi che il DDL bilancio non affronta e lascia irrisolti.
Buona parte delle coperture sono temporanee e nei prossimi anni si porrà il problema della loro sostituzione.
C’è un definanziamento reale di alcune voci di spesa, in primo luogo la sanità, con peggioramento progressivo dei servizi erogati ai cittadini in molti ambiti della spesa sociale.
Il taglio agli Enti locali e ai ministeri prescinde da un’analisi specifica, è di tipo lineare, rischia di avere effetti negativi su investimenti e servizi ai cittadini.
Non vi è traccia nel DDL degli impegni presi con la Commissione e riportati nell’Allegato VI del PSB per portare a sette anni il Piano di rientro dei conti pubblici. Semmai il governo sembra contraddire già oggi alcuni degli impegni sottoscritti.
In campo fiscale nell’obiettivo “promuovere l’adempimento fiscale” è indicato che il recupero di entrate deve derivare da “Maggiori entrate derivanti da attività di prevenzione ed esecuzione rispetto al 2024 (14 miliardi di euro), incluse le entrate favorite dall’invio di lettere di conformità, “inviti al contraddittorio” e “atti istruttori ravvedibili”, escludendo misure quali “ruoli”, “concordato preventivo”, nonché qualsiasi misura volta a regolare i debiti fiscali passati a condizioni vantaggiose quali “rottamazione cartelle esattoriali”, “saldo e stralcio” e “ravvedimento speciale”
Ossia tutto il contrario di quello che il governo ha fatto fino ad oggi e intenderebbe fare riaprendo i termini del concordato preventivo.