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Irpef e ceto medio, salasso sugli aumenti salariali

Prima Repubblica, poi il Corriere della Sera “scoprono” con abbondante ritardo che la misura con cui la legge di bilancio trasforma il taglio del cuneo contributivo in taglio fiscale colpisce il ceto medio. Repubblica nel suo articolo scrive che la misura “inasprisce la pressione fiscale proprio del ceto medio che più soffre la morsa dell’inflazione e la sua lunga coda”, il Corriere titola un suo pezzo “La sforbiciata delle detrazioni colpisce soprattutto chi guadagna tra 32 e 40 mila euro, che si vede così aumentare le tasse”. Entrambi gli autori degli articoli chiamano a testimonianza l’audizione parlamentare dell’UPB. 

In realtà l’UPB afferma esattamente il contrario e dice che la conferma della riduzione a tre delle aliquote e la trasformazione del taglio contributivo in bonus e ulteriore detrazione “premia in maniera preponderante il lavoro dipendente” e poiché gli interventi più significativi sono destinati a dipendenti con reddito fino a 40.000 euro, operai e impiegati risultano le categorie più avvantaggiate”. “In termini assoluti, il beneficio medio più elevato spetta agli impiegati con circa 766 euro, rispetto ai 692 euro degli operai. Tuttavia, per questi ultimi l’incidenza sul reddito è notevolmente superiore: 4,1 per cento, contro il 2,4 per cento degli impiegati. I dirigenti … traggono vantaggi più limitati…. Il beneficio medio è di circa 280 euro, pari allo 0,2 per cento del loro reddito”.

Vediamo anche noi qualche numero. Nella tabella sottostante è riportata la situazione di una retribuzione imponibile di 36.000 euro, di una retribuzione cioè che ricade in quella fascia tra i 32.000 e i 40.000 euro che secondo Repubblica e Corriere vedrebbero aumentare la loro pressione fiscale nel 2025.

In realtà, come si vede nella tabella, l’imposta netta diminuisce grazie ad un aumento delle detrazioni e, quindi, il reddito netto aumenta. La pressione fiscale scende dal 22,3% al 20,9%. 

Ma c’è l’ultima colonna che spiega l’equivoco in cui sono caduti i giornalisti, con tutta evidenza poco esperti in materia fiscale.

 Retr. ImponibileImposta LordaDetrazioni Imposta NettaRetr. NettaPres. FiscaleAliquota ScaglioneAME
202436.0009.2401.2158.02527.97522,335,043,68
202536.0009.2401.7157.52528.47520,935,056,18
Differenza00500-500500-1,40 12,50

L’ultima colonna ci dice che l’AME di questa retribuzione è passata dal 43,68% al 56,18%. AME significa Aliquota Marginale Effettiva e ci indica qual è la pressione fiscale effettiva su di un incremento di reddito/retribuzione in presenza di detrazioni decrescenti in base al reddito.

Se un contribuente non ha detrazioni in funzione del reddito o, all’interno dello scaglione in cui termina il suo reddito, ha una detrazione fissa, un aumento di reddito viene colpito solo dall’aliquota dello scaglione, quindi aliquota formale e marginale coincidono. È quello che capita ai redditi superiori a 50.000 euro che non hanno detrazioni in funzione del reddito.  Se invece in quello scaglione vi è una detrazione a scalare in funzione del reddito, al taglio prodotto dall’aliquota dello scaglione si aggiunge l’effetto della riduzione della detrazione. 

Come si vede nella tabella già quest’anno, 2024, l’AME della retribuzione di 36.000 euro era superiore, 43,68%, al valore dell’aliquota dello scaglione. Infatti già nel 2024 questa retribuzione godeva di una detrazione linearmente decrescente in funzione del reddito. Nel 2025 con la misura della LdB a questa detrazione se ne è aggiunta un’altra e questo fa si che nel 2025 l’AME salirà al 56,18%, dato che gli eventuali incrementi di retribuzione saranno soggetti ad un taglio fiscale frutto composto dell’aliquota del 35% dello scaglione e della riduzione di due detrazioni decrescenti in funzione del reddito.

L’ulteriore detrazione per i lavoratori dipendenti tra 32.000 e 40.000 euro, massima, 1.000 euro a 32.000 e nulla a 40.000 euro, introdotta dalla LdB produce così due effetti. Da un lato diminuisce la pressione fiscale media su questi redditi, dall’altra aumenta la pressione fiscale sugli eventuali incrementi di reddito. 

Lo vediamo nella tabella sottostante. Come già visto una retribuzione di 36.000 euro passa da una pressione fiscale del 22,3% a una del 20,9%. Ma mentre con l’Irpef del 2024 un aumento di 100 mensili di imponibile (1.300 annui) sarebbe stato assoggettato ad un AME del 43,68%, con la nuova Irpef sarà assoggettato ad un AME del 56,18%.

La sua retribuzione netta sarà comunque superiore a quella che avrebbe percepito con il sistema attuale.

Retr. ImponibileImposta LordaDetrazioni Imposta NettaRetr. NettaPres. FiscaleAliquota ScaglioneAME
2024
36.0009.2401.2158.02527.97522,335,043,68
37.3009.6951.1038.59228.70823,035,043,68
0455-1135677330,70  
2025
36.0009.2401.7157.52528.47520,935,056,18
37.3009.6951.4408.25529.04522,135,056,18
0455-2757305701,2  

Non vi è quindi nessun attacco al ceto medio nella misura del governo. Del resto sarebbe bastato che i due giornalisti avessero fatto una semplice domanda al loro ufficio del personale o, più probabilmente, alla società che cura le buste paga delle loro aziende. Nei programmi di buste usano le tre aliquote formali del 23-35-43 o la serie di aliquote marginali che hanno indicato nei loro articoli?

Detto questo e detto che l’intervento del governo mette riparo al problema maggiore che creava il taglio contributivo, quello del taglio del finanziamento del sistema pensionistico e della mancata corrispondenza tra contributi e pensione, cardine del sistema contributivo, e al problema minore, ma non trascurabile, della trappola connessa al venir meno a 35.000 euro del taglio contributivo, resta il fatto che la misura governativa aggrava i difetti esistenti nella nostra Irpef, difetti costruiti negli anni da tutti i governi passati di ogni colore.

In primo luogo, come afferma l’UPB, “I benefici destinati alle altre categorie di contribuenti risultano marginali rispetto a quelli dei lavoratori dipendenti.In particolare, i pensionati ricevono in media 118 euro (con un’incidenza dello 0,5 per cento), mentre i contribuenti con reddito prevalente da lavoro autonomo beneficiano di 165 euro”. “Con il nuovo assetto dell’Irpef è sensibilmente aumentata la discriminazione tra tipologie di percettori di reddito….. Aumenta il differenziale già ampio tra le aliquote di imposta che pagano le diverse categorie di contribuenti a parità di reddito.”

Possiamo anche ritenere giustificato il differente trattamento riservato agli autonomi (si tratta naturalmente solo di quelli non in flat tax) pensando ai dati sull’evasione, ai vari concordati fiscale e via dicendo, ma non vi è alcuna ragione per la diversità crescente che si è creata tra tassazione dei dipendenti e tassazione dei pensionati.

E comunque un sistema fiscale corretto dovrebbe prevedere un’imposta sul reddito uguale per tutti.

Un secondo difetto della nostra Irpef che la misura del governo non diminuisce ma aggrava è quello delle aliquote marginali. Abbiamo visto gli effetti sui redditi tra i 32 e i 40.000 euro.

Le detrazioni differenziate in base al reddito vengono introdotte nel 1983. Inizialmente sono 5 a scalino per dipendenti e pensionati, salgono a 9 nel 1985, poi sono eliminate e tornano nel 1993 in numero di 4, sempre a scalino. Visco nel 1998 le porta a 16, nel 2001 salgono a 21 intersecando di fatto tutti gli scaglioni con il tempo sensibilmente ridimensionati di numero e aumentati di dimensione. Con Tremonti nel 2003 si ha una svolta con il passaggio al sistema di deduzioni continue linearmente decrescenti, differente tra dipendenti e pensionati. Nel 2007 con Visco si ritorna al sistema delle detrazioni ma si mantiene la decrescenza lineare introdotta da Tremonti e la differenza tra dipendenti e pensionati. È il sistema in vigore ancora oggi.

Col tempo, tuttavia, l’Irpef, si è complicata. Mentre da un lato dai 5 scaglioni di Visco siamo passati a tre, è aumentato il numero delle detrazioni per i dipendenti e sono stati introdotti dei bonus. Prima il bonus Renzi, poi bonus e detrazione Gualtieri, poi il nuovo bonus e la detrazione aggiuntiva. Sempre decrescenti in funzione del reddito con la conseguente moltiplicazione delle aliquote marginali fino alle sei attuali.

Tutte misure che da un lato hanno “tamponato” la crescita della pressione fiscale sui redditi più bassi del lavoro dipendente, ma che hanno “massacrato” gli aumenti contrattuali delle categorie medio-alte. 

Risalta certamente oggi l’aliquota del 56,18% che riduce un aumento lordo di 100 euro a 39,8 euro considerando un contributo del 9,19% e al netto delle addizionali. Ma in precedenza un’aliquota marginale del 43,68% riduceva lo stesso aumento a 51,2 euro.

E aumenta così anche il paradosso, già presente con l’AME del 43,68%, che questi lavoratori vedono il loro aumento contrattuale colpito più pesantemente dal fisco rispetto a quello di lavoratori con retribuzione superiore a 50.000 euro e con aliquota formale e marginale uguale e pari al 43%.

Da rilevare, comunque, che l’effetto perverso sugli aumenti contrattuali si verifica anche per le retribuzioni di livello inferiore dato che tra i 15.000 e i 20.000 euro a un’aliquota formale del 23% corrisponde una marginale del 27,35%, tra i 20.000 e i 28.000 euro a un’aliquota formale del 23% corrisponde una marginale del 32,15% e tra i 28.000 e i 32.000 euro a un’aliquota formale del 35% corrisponde una marginale del 43,68%.

Insomma i contratti, specie nei settori con forte presenza di lavoratori con qualifiche alte, sono un affare in primo luogo per il MEF. 

Chiedere la detassazione della tredicesima o la detassazione degli aumenti contrattuali non risolve il problema. La seconda misura, poi, porrebbe il problema di come finirebbe l’Irpef se fosse permanente e di come verrebbe finanziato il nostro welfare visto che oggi per il 50% le sue risorse arrivano dal sistema fiscale.

La soluzione sta nell’eliminare le detrazioni decrescenti e questo costa molto e comporta una totale revisione dell’Irpef.

Che poi esista un problema fiscale del ceto medio è indubbio. È una domanda che anche il CS dovrebbe porsi visto che l’attuale sistema Irpef è in parte opera sua e visto che la soluzione dei problemi fiscali dello stato è stata posta anche dai suoi governi in buona parte sul ceto medio che paga le tasse, ossia su lavoratori dipendenti e pensionati.

Per dimostrarlo basta fare un piccolo calcolo. Prendiamo gli scaglioni e le aliquote in vigore nel 1989.  Applichiamo ai limiti degli scaglioni, trasformati in euro, la legge n. 154/1989 che prevedeva, nel caso in cui l’indice Foi dei prezzi al consumo avesse superato il 2%, che i valori soglia degli scaglioni sarebbero stati aumentati in misura pari all’inflazione. 

L’aliquota del 45% si applicava a partire da 77.500 euro. In base alla legge 154/1989 oggi quel limite sarebbe pari a 160.000 euro. L’attuale Irpef prevede invece che a partire da 50.000 euro si applichi l’aliquota del 43%. Insomma lo stato, grazie a Tremonti che per primo smise di applicare la norma, ha successivamente incamerato i proventi Irpef derivanti dalla crescita dovuta fondamentalmente all’aumento dei redditi nominali causa inflazione.

Poi sono state eliminate le aliquote più alte mentre quelle intermedie sono state ferme e applicate a valori nominali cresciuti nel tempo per effetto della crescita dell’inflazione. 

Gli interventi per frenare la crescita della pressione fiscale sono stati rivolti soprattutto ai redditi bassi (Visco, Tremonti1, Renzi, Gualtieri, Giorgetti) e ai redditi medio-alti attraverso il proliferare delle tax expenditures.

I più colpiti i pensionati, in genere esclusi dai vari interventi salvo aumenti della no tax area.

Non pare che questo governo abbia intenzione di affrontare questi problemi, ma nemmeno l’opposizione sembra che se li ponga.

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