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Una grande impresa, le 35 ore, la gestione della mobilità del lavoro

Il Censis ha sempre avuto vista lunga. Quest’anno ci annuncia che l’Italia è un Paese che galleggia. Sa restare a pelo d’acqua, ma non si muove. Al massimo si fa trascinare dalle onde. L’elenco dei fatti che confermano l’opinione è consistente. A questo andazzo, il Governo si adegua. Ha confezionato una legge di Bilancio che per avere l’approvazione della Commissione Europea e dei mercati, tra le tante brutture, ci mette anche la cancellazione dei contributi per il sostegno del settore dell’automotive. Niente di strabiliante ma neanche briciole: 4,5 miliardi di euro.  Spariti senza neanche una riga di spiegazione. E questo nel pieno di una crisi che coinvolge tutto il sistema di produzione delle auto in Europa. Cioè il cuore dell’industria europea, presente e futura.

E’ un segnale di stagnazione del pensiero governativo di fronte ad una sgraziata piega che sta prendendo quasi tutto il settore industriale del Paese. Sono 21 mesi che la produzione continua a calare costantemente, sia per una riluttanza a spendere dei suoi abitanti che per una frenata delle esportazioni. In realtà, il Governo fa finta di niente, non sa che pesci prendere, aspetta che gli eventi, amplificandosi, diano qualche suggerimento. L’attitudine di prevenire è virtù sconosciuta a chi persegue l’obiettivo di compiacere “hic et nunc” la parte della società che vuol essere a tutti i costi rassicurata che meglio di così non può andare.

E’ in questo clima, non in perfetta sintonia con la realtà del Paese, che si colloca la vicenda Stellantis. Questa multinazionale ha goffamente dato fiato al galleggiamento del Governo. Non è di ieri il documento congiunto di Federmeccanica e Fim, Fiom, Uilm che metteva in allarme le istituzioni circa il difficile cortocircuito che si stava mettendo in moto tra la lotta al cambiamento climatico, l’avvio di una profonda innovazione tecnologica nei prodotti e nei metodi organizzativi di tutto il settore dell’automotive, i mutamenti di stili di vita delle persone e la tenuta dell’occupazione, interessata da una crescente utilizzazione della Cassa Integrazione. Quel documento fu varato 3 anni fa, ma non ha avuto la dovuta attenzione. L’azienda ha adottato finora una strategia di minimizzazione delle difficoltà, di rassicurazioni generiche circa le produzioni in Italia, di congiunturalizzazione dei trend di vendita. Il Governo ha alzato la voce, ma è risultata stonata perché ha aggravato la situazione negando ogni intervento finanziario.

Finalmente, gli azionisti di Stellantis si sono accorti che Tavares – che pure li aveva riempiti di soldi, con dividenti abbondanti fino all’ultimo bilancio – stava portando fuori pista l’azienda, alienandosi contemporaneamente il consenso della politica europea, la tolleranza delle organizzazioni sindacali e l’attenzione delle Borse. Nel giro di pochi giorni, il comando è passato nelle mani del Presidente Elkann, un nuovo gruppo dirigente è stato portato in prima linea, al tavolo del Governo – convocato da Urso il 17 dicembre scorso – è stato presentato un programma operativo un po’ più realistico e promettente una stabilizzazione nel medio periodo (2028) per quasi tutti gli stabilimenti italiani e del suo indotto. Nello stesso tempo, il Governo ha resuscitato un quarto dei miliardi che aveva cancellato e la promessa di essere più concreto negli incontri programmati per il mese di gennaio.

I sindacati sono usciti dalla riunione giustamente guardinghi. Si aspettavano di più e in tempi più certi. Ma sanno benissimo che la partita è lunga, si gioca su più campi e con interlocutori che devono affinare la loro credibilità. Innanzitutto, c’è da capire come agirà la nuova Commissione europea. Giustamente, i sindacati metalmeccanici non mettono in discussione la scadenza del 2035 per la cessazione della produzione di veicoli con motori a scoppio ma chiedono un “governo della transizione”. Anche il Rapporto Draghi lo sollecita, allargando l’orizzonte al ridisegno di tutta la catena di fornitura, a partire dalle materie prime critiche (CRM), che oggi sono controllate per il 90% dalla Cina (le importazioni di ossidi di terre rare pesanti dal Myanmar alla Cina sono salite alle stelle, dai precedenti massimi di 19.500 tonn. nel 2021 alle 41.700 tonn. nel 2023, più del doppio della quota cinese per l’estrazione nazionale di HREE) e alla necessità di un piano per aumentare la ricerca, la capacità produttiva interna, e l’estrazione e il riciclo a livello nazionale delle materie prime critiche.

Più specificamente, questo “governo della transizione” significa fondamentalmente tre linee di azione: la prima, accettazione di una “neutralità tecnologica” non limitata al motore elettrico ma aperta a soluzioni analoghe dal punto di vista della minore emissione di CO2. La seconda, un piano di sostegno all’occupazione nella consapevolezza che il passaggio all’auto elettrica implica un 20% in meno di manodopera e una riqualificazione dell’indotto (le marmitte non servono più nelle vetture elettriche). La terza, forse la più necessaria anche se la più difficile, riguarda un “guidato” progetto di riallocazione dei settori e delle localizzazioni di tutte le società che gestiscono la produzione delle auto in Europa e la più vasta geografia dell’automotive.

Contestualmente, l’Italia deve attrezzarsi per potenziare la ricerca e la sperimentazione sulle materie prime critiche, sui materiali e sulle tecniche che riguardano tutte le componenti dell’automotive. Si tratta di mettere in interazione le Università e i Centri di ricerche esistenti nel Paese con aziende di medie e piccole dimensioni che possono diventare fornitrici europee e finanche mondiali e assicurare una quota crescente di occupazione. Alle loro spalle deve esserci una industria dell’auto con forti radicamenti italiani, caratterizzati soprattutto dalla qualità dei veicoli prodotti, piuttosto che dai volumi produttivi (una ripetizione della pantomima del milione di veicoli prodotti in Italia a cui abbiamo assistito nei mesi scorsi, sarebbe bene che ci fosse risparmiata).

Realisticamente, bisogna mettere nel conto che la transizione non sarà a somma zero dal punto di vista occupazionale, anche nell’ipotesi che al crescere della produzione di auto elettriche si affianchi quella di motori altrettanto poco inquinanti. Ci vuole una strategia di gestione che non sia difensiva. Stellantis deve programmare un dispiegamento delle produzioni che tenga conto della necessità di ridurre al massimo i disagi sociali. Una prima risposta è già nella piattaforma per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, con la richiesta di ridurre l’orario di lavoro a 35 ore settimanali. Stellantis potrebbe assumere questa prospettiva, recuperando per questa via una parte degli eventuali esuberi. Una scelta di questo genere, definendo un contratto di solidarietà con costi decrescenti per la quota di intervento dello Stato, combinerebbe maggiore produttività e migliore tutela dei lavoratori. Oltre a divenire un punto di riferimento per l’intera categoria.

Nello stesso momento, Stellantis dovrebbe costituire un’Accademia della formazione continua delle professionalità. Essa va cogestita con i sindacati per la riqualificazione dei residui lavoratori adulti ed esuberanti in età lavorativa, per accompagnarli verso una nuova occupazione richiesta dal mercato del lavoro e dagli eventuali nuovi investimenti previsti dai già preannunciati “contratti di programma territoriali” da parte del Governo. Ai lavoratori andrebbe assicurato un “salario di riqualificazione” finanziato in parti uguali dall’azienda e dallo Stato, anche con contributi europei. Esso dovrebbe dare tranquillità retributiva al lavoratore o alla lavoratrice fino all’individuazione del lavoro sostitutivo. La dura esperienza dell’utilizzo esclusivo della Cassa integrazione ad libitum, sperimentata nella crisi Fiat dell’inizio degli anni 80 del secolo scorso e in quelli più recenti, dovrebbe essere archiviata. Ai lavoratori e alle lavoratrici non basta essere momentaneamente coperti dalla CIGS se poi vengono lasciati soli nella ardua ricerca di un nuovo lavoro.

In questo modo, il rilancio aziendale e del settore avrebbe un significato socialmente oltre che economicamente rilevante. Darebbe senso anche all’impegno finanziario dello Stato, che sarebbe chiamato non al puro salvataggio aziendale e all’assistenzialismo verso i lavoratori più esposti dalle conseguenze del processo di ristrutturazione epocale che si sta profilando. L’opinione pubblica ne terrebbe in giusta considerazione e sarebbe indotta a trovare nelle scelte innovative proposte, ragioni di rinnovato ottimismo. Finanche smentendo il Censis, che certamente sarebbe contento di aver suonato la sveglia a quanti pensano di vivacchiare, sonnecchiando. 

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