Il venticinquesimo anniversario della morte di Bettino Craxi è stato ricordato alquanto in sordina. Figura politica complessa, molto discussa e anche penalmente condannato. Ma che in ogni caso, è da considerare comunque un cavallo di razza del panorama politico italiano ed europeo di tutti i tempi. Anche di quelli attuali.
Come ha ricordato il Presidente della Repubblica in modo garbato ma preciso, “una spiccata determinazione caratterizzò le sue battaglie politiche, sia nel confronto tra i partiti, sia in campo sociale e sindacale, catalizzando sentimenti contrastanti nel Paese”. Il riferimento è evidentemente al lungo braccio di ferro di tipo egemonico con il PCI di Berlinguer e all’accordo di San Valentino che diede un colpo mortale all’inflazione più alta della storia repubblicana ma fece anche tramontare la prospettiva dell’unità sindacale.
Su quest’ultima vicenda credo che non sarà mai messo un punto fermo nella valutazione storica e politica. Eppure i fatti hanno dimostrato che fu un momento di alta concertazione tra Governo e parti sociali e di grande efficacia nella gestione della politica economica del Paese. Con quell’accordo, si passò da una inflazione del 21% al 9% alla vigilia del referendum, che rappresentò una cocente sconfitta del PCI che lo aveva voluto con testarda determinazione.
Un po’ mi ha sorpreso la dichiarazione di Cofferati sulle intenzioni di Craxi. “Per un Governo di centro sinistra sarebbe stato normale, secondo me, considerare importante e decisivo il confronto con il mondo del lavoro, invece Craxi ha lavorato per indebolirlo.” (Il fatto quotidiano, 20/01/2025). In realtà, Benvenuto, Carniti e Lama contrattarono fino alle virgole un accordo che era più ampio del taglio di 3 punti di scala mobile e che disegnò la politica del lavoro per il decennio successivo. Ci furono anche dei tentativi di conciliare le posizioni.
Ma sul piano politico né Berlinguer, né Craxi potevano smentirsi. Il primo aveva alzato la bandiera della parlamentarizzazione della questione, il secondo non poteva manomettere un’intesa con le parti sociali. Altro che indebolimento del ruolo del sindacato, come rappresentante primario del mondo del lavoro.
D’altra parte, tanto Cofferati che io compartecipammo a quasi dieci anni di faticosa ricostruzione di un minimo di unità d’azione e sulla scia di quell’accordo realizzammo quelli del 1992 (Governo Amato) e del 1993 (Governo Ciampi) che riflettevano appunto la logica della concertazione tra governo e parti sociali.
Ma questa memoria, ci riporta ai giorni d’oggi. Non perché vi siano assonanze di contesto economico, di dinamiche politiche, di omogeneità di tensioni sociali. Siamo in tutt’altra situazione rispetto al 1984. Però, la disunità sindacale persiste, ma con una peculiarità di comportamenti che si sta delineando non come fenomeno occasionale ma di lunga lena. Le Confederazioni CGIL, CISL e UIL hanno quasi azzerato le occasioni di comunanza propositiva (restano in piedi le manifestazioni del 1° Maggio e il Concertone di piazza s. Giovanni) mentre le loro categorie, specie nel settore privato e soprattutto nella manifattura, agiscono unitariamente nell’attività contrattuale sia di base che nazionale. Situazione inedita e di difficile tenuta nel tempo, a meno che non si accetti il rischio che le strutture si connotino sempre più ripiegate su sé stesse e sempre meno solidaristiche tra loro e verso le aree più deboli del mercato del lavoro.
Sia chiaro, il bisogno di confederalità non lo si impone con editti o invocando la tradizione; sono le vicende della condizione dei lavoratori che lievitano questa esigenza. Il bisogno di unità non è un obbligo di legge, né una forzatura intellettualistica; è la necessità di far fronte ai grandi cambiamenti che lo esige. Ma anche se si convenisse su queste opzioni, il passare dal dire al fare implica una scelta di fondo. Quella di una sincera condivisione della concezione dell’autonomia che deve connotare il sindacato confederale del nuovo secolo.
Allo stato sembra che prevalgano due visioni dell’autonomia sindacale. A vedere le scelte che vengono fatte, sembra che si oscilli tra un’idea di autonomia tutta politica, quasi di tipo laburistica da inizio del secolo scorso, per cui il sindacato definisce la sua agenda che trascende la dimensione contrattualistica, ma la detta anche alla sinistra politica e un’altra che nella sua gerarchia dei valori mette al primo posto gli interessi contrattuali e dei servizi al lavoratore e poi le esigenze di carattere generali. Una competizione tra queste due visioni è veramente inevitabile? Oppure posso essere conciliate, alzando e non abbassando la visione strategica e il livello delle richieste?
Sia guardando alle prospettive europee che a quelle del nostro Paese appare con sempre più urgenza che ciò che necessita sia un grande sforzo propositivo e una forte energia per non affidarsi allo stellone (c’è qualcuno che sa quale futuro per l’Italia hanno in testa Meloni e la sua maggioranza?). Il sindacato non può sottrarsi da questo impegno; deve rilanciare la concertazione come unico modo per governare la transizione da un esausto modello di sviluppo ad uno più nuovo e possibilmente non egemonizzato dal tecnopotere delle proprietà delle piattaforme digitali.
Punti di forza di questa scelta potrebbero essere due. Una concertazione europea tra Commissione europea e rappresentanze europee delle parti sociali per definire come utilizzare nella maniera più socialmente accettabile la realizzazione del Rapporto Draghi. Un’altra, tutta interna all’Italia, che possa conciliare stabilità dell’occupazione – pur in presenza di complesse mutazioni delle professionalità richieste – e crescita dei salari, sia ridefinendo il sistema contrattuale e la rappresentatività dei soggetti sociali, sia ponendo mano al sistema fiscale che sempre più taglieggia il mondo del lavoro e mette in pericolo lo Stato sociale.
In altre parole, dopo un periodo non breve e collaudato nel rapporto tanto con controparti, purtroppo interessate a fasi alterne al confronto di ordine generale, quanto con Governi di varia composizione, si dovrebbe per lo meno fare un bilancio dei costi/benefici della disunità del sindacalismo confederale. E quindi trarre valutazioni finalizzate a superarla. Di certo, nessun dialogo sociale può prendere corpo, men che meno quello che è utile in Europa e in Italia, se non ci sarà una forte iniziativa sindacale che costringa gli altri soggetti sociali e istituzionali a rimboccarsi le maniche e incominciare a disegnare i percorsi per governare con il minor conflitto possibile gli sbocchi individuati.
”La cultura non ha lo sguardo rivolto all’ indietro”
Agrigento raccoglie questo prezioso testimone da Pesaro, nel centro dell’Italia. Che, a sua volta, lo aveva