Noi europei siamo alle prese con un passaggio storico drammatico, nel quale nulla sarebbe più facile che abbandonarsi al pessimismo più cupo. Il “modello europeo” di convivenza pacifica nella democrazia e nello sviluppo economico sostenibile sul piano sociale e ambientale, è infatti sotto attacco da tre lati.
Dall’Oriente, la Russia di Putin intende ricostruire, costi quel che costi, una sua “area di influenza”: nella sostanza una fascia di paesi cuscinetto che evitino il contatto (e il contagio) diretto con il modello europeo; una nuova “cortina di ferro” senza la quale l’Europa, dopo Berlino e Varsavia, Budapest e Praga e poi Kyiv, rischia di arrivare pacificamente a Mosca.
Dal Sud, dal Mediterraneo, la vasta area di instabilità rappresentata dal mondo arabo-islamico, in perenne, feroce guerra civile tra potenze regionali, finora accomunate dalla medesima incapacità di coniugare Islam e democrazia liberale e quindi di dare basi solide ad uno sviluppo ordinato e pacifico, oltre che una soluzione razionale alla questione israelo-palestinese.
Dall’Occidente, dall’Atlantico, la sfida nuova, lanciata in modo brusco per non dire brutale dalla nuova amministrazione Trump. Che non è più solo la richiesta, che il tempo trascorso inutilmente ha reso ultimativa, che l’Europa si accolli per intero i costi della sua difesa, non più sostenibili per un’America alle prese con la sfida cinese. È molto di più: è la proposta alla Russia di Putin di una nuova Yalta, una nuova spartizione dell’Europa (e non solo) tra aree di influenza, come contropartita alla rinuncia da parte della Russia a rendere strategica e irreversibile la sua alleanza con la Cina.
Non sappiamo ancora quale possa essere la risposta russa all’invito americano. Ma questa incertezza è già una risposta: il destino dell’Europa e del suo modello politico e di sviluppo rischia di dipendere da cosa si decide tra Washington e Mosca.
Una sfida esistenziale, storica, epocale. Per l’Europa. Meglio: per noi europei. Costretti ad assistere da spettatori passivi al compiersi del nostro destino? O disposti e decisi a fare tutto ciò che è in nostro potere per almeno concorrere a determinarlo?
Il divario tra la portata della sfida e la fragilità politica, prima ancora che la debolezza militare dell’Europa induce al pessimismo. E tuttavia, per la nostra storia, per le nostre radici culturali, non possiamo esonerarci dallo sforzo di scrutare i segni dei tempi, di cercare gli spazi per quanto minimi sui quali fare leva per aprire una prospettiva di speranza.
L’Europa che vorremmo ancora non c’è, è evidente: “eppur si muove”, direbbe Galileo. Proprio il terremoto provocato dal ritorno di Trump alla Casa Bianca la sta scuotendo violentemente, e la sta forse costringendo a svegliarsi dal suo torpore. Si dice sempre, dai tempi di Jean Monnet, che “l’Europa cresce nelle crisi”, riesce a fare passi avanti solo quando non è in grado di farli indietro, perché si trova con le spalle al muro. Forse è quello che sta succedendo in questo momento.
È vero che la via principale per la costruzione di un’Europa che, per dirla con Mario Draghi, assomigli ad uno Stato unitario, è in gran parte ostruita dai veti incrociati. Se ci si ponesse ora l’obiettivo di una riforma della governance i tempi sarebbero biblici e i risultati molto incerti. E tuttavia, il fatto nuovo è che sotto l’urgenza della guerra in Ucraina e del disimpegno non più solo minacciato, ma che comincia a realizzarsi, degli Stati Uniti, si stanno muovendo gli stati e i governi dei paesi europei. Insieme e non senza o contro le istituzioni dell’Unione.
Questo è un elemento in gran parte nuovo e che sta aprendo scenari inediti e perfino impensabili fino a poche settimane fa. Il fatto nuovo più importante è il ritorno del Regno Unito. Londra è tornata ad essere una capitale europea. Un po’ grazie alla recente vittoria dei laburisti di Starmer, meno condizionati dei Tories dal disastro Brexit. Ma un po’ anche perché la famosa “special relationship” con gli USA, nel nuovo scenario trumpiano, può produrre risultati per gli stessi britannici solo se usata come ponte tra USA e Ue.
Il ritorno di Londra ha reso più forte e al tempo stesso più tollerabile il ruolo essenziale di Parigi nella costruzione di questa possibile nuova CED, comunità europea di difesa. E’ un rilancio, più di settant’anni dopo, dell’antico sogno degasperiano di unire l’Europa a partire dalla difesa comune. Allora, com’è noto, il tentativo fallì, proprio per responsabilità francese, e l’Europa prese tutta un’altra strada, quella della integrazione economica.
Questa volta sembra invece che per iniziativa della Francia e del Regno Unito, qualcosa di simile ad una nuova CED possa prendere corpo. Anche grazie alla immediata adesione della Germania, che ha messo a disposizione di questa impresa il suo enorme spazio fiscale, reso praticabile dalla decisione politica di Cdu e Spd di promuovere un superamento almeno parziale del vincolo costituzionale che impedisce gli investimenti in deficit. E dal piano della Commissione Von der Leyen, approvato dal Consiglio europeo con la sola opposizione dell’Ungheria, che ha previsto lo scorporo dal patto di stabilità delle spese straordinarie per la difesa da parte dei singoli paesi (a cominciare, ovviamente, dalla Germania), oltre ad uno stanziamento di 150 miliardi per finanziare programmi di difesa sovranazionali.
L’inedita trojka Londra-Parigi-Berlino dispone della massa critica sufficiente, sia sul piano politico-diplomatico, che su quello strategico-militare, che su quello economico-finanziario-industriale, non a fare da sé, ma a mettere in moto una vera mobilitazione di tutte le risorse europee, potenzialmente gigantesche, anche se oggi poco e male organizzate e quindi in sostanza inefficaci senza il coordinamento americano.
C’è innanzitutto l’Ucraina, l’unica vera potenza militare combattente, che ormai da anni sta reggendo da sola, col solo aiuto, peraltro erogato col contagocce e con mille vincoli all’impiego, di mezzi militari e risorse finanziarie occidentali, all’urto violento e alla spaventosa pressione dell’invasione da parte della Russia. Subito dietro all’Ucraina, ci sono la Polonia e i Baltici, la Romania e la Moldavia, che sanno di essere le potenziali prossime prede dell’imperialismo russo, se il containment europeo non dovesse dispiegarsi in tempo ed efficacemente. E poi i nordici, a cominciare dalla Finlandia e dalla Svezia, costrette dall’invasione dell’Ucraina ad uscire dalla loro tradizionale neutralità. E avanti, fino alla Spagna a Ovest e, fuori dall’Unione, ma nella NATO, alla Norvegia a Nord e alla Turchia a Sud-Est, mentre anche il Canada si affaccia in Europa.
Ci sarà anche l’Italia, nel cantiere di questa nuova CED. Meloni non può permettersi di restare fuori. Non solo perché andrebbe in rotta di collisione col presidente Mattarella. Ma anche e soprattutto perché non avrebbe alcun senso, non solo nei rapporti dell’Italia con l’Europa, ma anche in quelli con gli Stati Uniti: anche a voler abbracciare la lettura meno pessimista sul nuovo posizionamento americano, Trump ha comunque chiesto in modo perentorio agli europei di pagarsi da soli la loro difesa, ed è su quel terreno che si gioca la credibilità di Roma, anche a Washington. E proprio perché lo spazio fiscale di cui dispone l’Italia è minimo, l’Italia ancora più degli altri ha bisogno dell’Europa.
Non a caso, Meloni ha partecipato a tutti i summit, in tutti i format. Ha mandato i vertici delle nostre forze armate ai tavoli tecnici militari. Ha messo al lavoro il ministro Giorgetti per trovare spazi finanziari. E starebbe lavorando ad un piano di riconversione di parte del settore automotive da civile a militare, sul modello tedesco.
Il problema è che Meloni nel nuovo corso europeo sembra starci più per rassegnazione che per convinzione. Non solo per paura di rompere con Trump, ma anche e soprattutto per paura di rompere col paese, anzi con la nazione, che non sembra affatto pronta a qualche sacrificio anche solo economico per la difesa dell’Europa.
È la stessa paura che, sul versante opposto dello schieramento politico, ha afferrato Schlein: con l’aggravante per il Pd che all’opposizione si può permettere molta più paura di chi, come Meloni, deve comunque fare i conti con la responsabilità di governo.
Schlein intende schierare il Pd contro l’Europa reale in nome dell’Europa ideale. L’Europa ideale è quella descritta da Draghi, “come uno Stato”, con un suo esercito e dunque una sua autorità, una sua sovranità politica democratica. A questo modello, che forse prima di quanto pensiamo potrebbe essere imposto dagli stessi vincoli tecnici, sia militari che finanziari, con i quali il riarmo europeo dovrà fare i conti, si deve tendere con ferma determinazione. Ma sarebbe un errore storico imperdonabile, come hanno osservato Prodi e Gentiloni, usare l’Europa necessaria per bloccare l’Europa possibile e possibile subito.
Il fronte interno rischia in ogni caso di essere il punto più debole del cantiere europeo. Nelle istituzioni comunitarie e nella gran parte dei governi nazionali, al momento siamo in presenza di maggioranze “europeiste”, intenzionate a procedere per non subire passivamente gli effetti della morsa che si sta stringendo tra Stati Uniti e Russia.
Ma le coalizioni europeiste sono tutte insidiate, all’interno dei singoli paesi, anche per le sempre più aggressive ingerenze esterne, da possibili maggioranze alternative, che chiamano pace la resa alla spartizione tra potenze che negano in radice i valori costitutivi del modello europeo.
Per questo, occorre rafforzare il fronte interno, anche in Italia, italiano per dare più consistenza alla strategia europeista. Penso sia un fatto molto importante quindi costruire un’iniziativa di mobilitazione sociale che non abbia per forza una connotazione politica dí schieramento pro o contro il governo, ma che spinga invece l’Italia come tale a sostenere l’Europa possibile subito, nella prospettiva dell’Europa necessaria. Più la connotazione di questa pressione è trasversale e meno direttamente politica e più può avere un qualche successo.
Concludendo, penso che dobbiamo cercare e possiamo trovare motivi ovviamente non di facile ottimismo, ma di ragionevole speranza sui quali lavorare. Bisogna portare l’Italia fuori dall’ambiguità e inserirla in questo percorso. Nel nostro piccolo, possiamo essere un elemento di promozione di un dibattito che aiuta l’Italia a mettersi dalla parte giusta.